La vita ci insegue a ritmo forsennato. Abbiamo appena finito di salutare Dario Fo e il premio Nobel passa idealmente nelle mani di un eroe della mia generazione. Robert Zimmermann, l’uomo dalla faccia più scontrosa ed ebrea che si possa immaginare, lo ha ricevuto oggi, nello stesso giorno in cui il geniale giullare milanese se ne andava. Robert Zimmermann, lo sanno tutti, è il vero nome di Bob Dylan e così lo chiamò un altro nostro padre spirituale, David Bowie, per scuoterlo da uno dei suoi torpori momentanei e spronarlo, negli anni settanta, a tornare ai fasti del passato.
“Now hear this, Robert Zimmerman
Though I don’t suppose we’ll meet
Ask your good friend Dylan (…)
Give us back our unity
Give us back our family
You’re every nation’s refugee
Don’t leave us with their sanity…”
Non credo ci sia bisogno di traduzioni, ormai un po’ d’inglese lo mastichiamo tutti.
Bob lo ascoltò e si riprese alla grande, regalandoci nei tanti anni a venire roba meravigliosa che non sto nemmeno a citare, perché è patrimonio ormai di varie generazioni.
Dovessi sceglierne uno, tra i motivi di gioia per un Nobel strameritato, direi perché è il premio che riscatta una generazione di strimpellatori (quorum ego). I quali, forti di cotanto esempio, hanno cominciato a credere che, in fondo, anche conoscendo quattro o cinque accordi di chitarra, magari quelli di “Like a rolling stone” o quelli, trascinanti, di “Hurricane”, si potesse creare qualcosa non solo di divertente ma di sensato o, addirittura, di significativo. Un altro grande, Francesco Guccini, avrebbe detto “…si possa far poesia…”
E insomma grazie, Bob. Il tuo Nobel, a torto o ragione, lo sentiamo anche nostro.