Quasi tutti i film made in Usa sono western o commedie d’amore. Queste ultime sono i film sui sognatori. Eroi romantici, stralunati, imbranati, tutti di un pezzo, onesti fino al midollo, irreprensibili, inattaccabili, ma, comunque, sempre americani. Forrest Gump, La vita è meravigliosa, Sabrina, Indovina chi viene a cena, Provaci ancora Sam, Mezzogiorno di fuoco, ne sono degli esempi. Invece, sotto la prima categoria possiamo collocare tutte le opere cinematografiche di frontiera. Quella spaziale e quella temporale. In altri termini, tutti i film che raccontano la conquista del west. Il west non tanto come luogo, come terra promessa, ma piuttosto come inquieto esercizio di democrazia e di giustizia risolutoria. Il mondo rappresentato come puzzle che non deve restare incompiuto, ma, soprattutto, non deve restare incognito. Le caratteristiche del racconto sono sempre le stesse: epica retorica, propaganda solenne, duelli cavallereschi. Sicché possono essere inseriti nella categoria western film come Via con il vento, Furore, Apocalypse now, La calda notte dell’ispettore Tibbs, Gran Torino, ecc. È facile in tutti questi film ritrovare l’americaneide, cioè il modus poetandi, comune agli scrittori e ai registi delle pellicole, volto appunto a cantare l’America, nel bene e nel male.
A questa categoria appartiene certamente Gli amici di Georgia, film di Arthur Penn del 1981. È la storia di quattro amici (Four friends è difatti il titolo originale), tre maschi: Danilo, Tom e David, tutti innamorati della stessa donna, Georgia. La storia si sviluppa nell’arco di circa vent’anni. C’è chi finisce in Vietnam, dopo aver messo incinta Georgia (Tom), c’è chi sparisce perché non ha ben chiaro il motivo che ha spinto i suoi genitori – emigranti dall’ex Jugoslavia – a scegliere l’America, un paese in cui negli anni 60 è facile veder bruciare la bandiera a stelle e strisce (Danilo) e c’è infine chi – impresario di pompe funebri e, a suo modo, homo faber del sogno USA – sposa Georgia (David).
La storia, in definitiva, è banale, pure come pretesto per l’americaneide, ma c’è un elemento che la modifica, la rende veramente retorica, solenne, cavalleresca. Un elemento di cui non si parla nei riassunti che si trovano nel web. Un elemento capace di scombussolare il basso metro della rappresentazione cronologica, se non addirittura, catacronica, in un affresco che urla muto e violento nelle nostre teste: la Sinfonia dal nuovo mondo di Dvořák.
Nei temi musicali di questa sinfonia è il film, il racconto vero, la trama, il mito, il sogno, l’attesa, il ritorno. I quattro amici sono suonatori di legni – chi il clarinetto, chi l’oboe – coinvolti (forse al college) nell’esecuzione della sinfonia del ceco. Suonano distrattamente, si illudono di dominare gli spirituals del primo e del secondo movimento, ed anzi, quasi novelli proci, deridono, insultano il vecchio mendicante dell’est che, assunta la direzione dell’orchestra, trafigge con il suo arco, ad uno ad uno, i sogni di questi quattro ragazzotti della middle class.
In effetti non sto raccontando un film, sto descrivendo l’emozione che ho provato nel vederlo. L’emozione di incontrare Dvořák travestito da eroe greco, sperduto a New York, orfano della zuppa di crauti e d’aglio, che riesce a cogliere oltre lo specchio armonico, la monofonia dei reietti per elevarla a sinfonia del mondo nuovo.
L’emozione di confrontarmi con la leggenda del capo indiano che torna alla casa del grande spirito (il goin’ home del largo) e accorgermi che somiglia tanto al funerale del capo romanì in una delle tante baraccopoli di una metropoli europea.
L’emozione di guardare questi quattro amici così maldestramente incompiuti in mezzo ai loro sogni spezzati e vedere me stesso e i miei amici, il sabato sera, ai concerti di Santa Cecilia scegliere la colonna sonora delle nostre vite.
Il resto del film, io non lo ricordo, e nemmeno lo voglio rivedere perché non si guasti l’emozione che serbo in me di questo imprescindibile western.