La morte, appunto…
Fu invece mia nonna ad andarsene velocemente. Aveva sempre tanta gente intorno, ma quella mattina era sola. “Che vuoi per pranzo?” mi aveva chiesto mentre andavo a scuola. Fettine panate, naturalmente. Con i piselli? Piselli e patate fritte. Era l’ultimo giorno di scuola, un giorno caldissimo di giugno. E io ero passata in seconda elementare su un cocchio trionfale di consonanti, vocali e poesie idiote. Mio nonno mi fece una sorpresa e venne a prendermi a scuola. Era simpatico. “Una grattachecca prima di pranzo?”.
Vietatissimo, quindi irresistibile. Ci fermammo al chiosco in fondo al viale , con l’ombra più fresca e profumosa di menta. Anche lui con la cannuccia, facevamo gorgoglianti schifezze nei pesanti bicchieri di vetro. Ci guardava sorridendo la donna del chiosco, con grandi tette e orecchini d’oro. Le invidiavo le tette, gli orecchini e anche il chiosco. E quel modo di trattare il ghiaccio da padrona, strofinandogli la schiena con una specie di paletta affilata. Gli sciroppi che aveva alle sue spalle avevano un becco generoso che s’infilava nei nostri bicchieri colmi di diamanti, facendoci esplodere dentro colore e sapore. Anche mio nonno sorrideva alla donna. Era raro che non sorridesse a una donna. I galli alzano le piume e gli uomini sorridono.
Mi teneva per mano, mentre tornavamo a casa .Me la lasciò sulla porta, per cercare le chiavi. Scivolai dentro e li vidi subito. Piselli. Erano in fuga dalla porta della cucina. Un esercito scompaginato. Un esercito di disertori. Mi affacciai alla porta della cucina, incuriosita da quel disordine che mia nonna non avrebbe mai permesso. Una sedia rovesciata. Lei era ammucchiata sotto al tavolo, e teneva ben stretta tra le braccia la pentola dove stava sgranando i piselli. Accanto al fornello, le fettine già impanate.
Mi avevano regalato un profumino. Corsi a prenderlo , m’infilai sotto al tavolo , cercai di farglielo annusare. Era tanto grande che non si poteva abbracciarla tutta, la nonna. Quando mi teneva in braccio sparivo nella sua carne. Le accarezzai il viso e la testa, dolcemente, si appoggiò alla mia spalla. Era, quella, una posizione nuova dell’affetto, e lo stupore per un attimo si sostituì alla paura. Ma non rispondeva, la chiamavo e non diceva niente. Mi liberai del peso e uscii da sotto al tavolo . Avevo dei numeri di telefono: potevo chiamare mio padre, se ne avevo bisogno. In qualsiasi momento. Quello era un momento. Ma non riuscivo a infilare il dito nel disco del telefono, me lo ricordo bene. Tremavo, come se le anime che s ‘erano venute a prendere mia nonna mi scuotessero per le spalle: ”Inutile. Lasciala a noi. Vivi più in là.”
Mio padre in ufficio non c’era. Lasciai detto che ero io, e che era morta la nonna. Uno dei tanti piattini di cicuta che gli ho preparato, lo volessi o no. Ma un altro numero, presto. La zia Aurora, al lavoro anche lei. Tremavano pure le mie corde vocali, come un’arpa suonata. Lei c’era. Mi disse che veniva subito, e di non tornare di là. Cosa che feci, invece. Guardavo la nonna sotto al tavolo. E la guardava mio nonno, che s’era preso una sedia e le si era seduto accanto. Me la mostrò: ”vedi tu, che mi doveva capitare?”. Gli uomini, a volte, sono così. La nonna aveva il mio profumino appoggiato sul grande seno, la testa ancora piegata di lato. Piselli qua e là che le macchiavano di verde l’eterno vestito di seta nero .Le si era alzato e le lasciava scoperte le gambe. Cercai di tirarlo giù, ma si lacerò sotto le mie dita, netto e veloce.
rip
Che non è mai un “riposa in pace”. E’ uno strappo. La nonna andava in pezzi, e un pezzo di noi andava via con lei. Nulla sarebbe stato come prima, e anche i sentimenti ,tutti i sentimenti che lei aveva ricamato tra noi della casa, si strapparono col suo vestito. Arrivò gente. Uomini del Palazzo, padri. Tirarono fuori la nonna da quella tana indecorosa dove le era capitato di morire. La trasportarono sul gran letto dei nonni. La casa si era popolata di persone mugolanti. C’era l’odore delle tragedie casalinghe. Le famiglie del nostro Palazzo e di quello dei Vecchi attraversavano le stanze della nostra casa, consolando . Noi bambini eravamo tristi. Ci sballottavano, ovunque eravamo un impiccio. La nonna se ne stava grandiosa e tranquilla con un rosario che le si era avviticchiato tra le dita. Dalle sue orecchie erano spariti i due brillanti di sempre. Chiesi a Lucia come mai …
”Ma sei proprio una bambina cattiva! Tua nonna è morta e tu pensi ai suoi brillanti…”
Io no, non ci avevo pensato fino a quel momento in cui m’era sparito dagli occhi il bagliorino che ero abituata a vedere intorno alle guance di mia nonna, però qualcun altro della famiglia ci aveva pensato, evidentemente. Magari mugolando, per carità, ma doveva aver considerato che la nonna era stata tanto buona nella vita da non aver certo bisogno di pagare a Caronte il passaggio…
Così la donna cannone
quell’enorme mistero volò
tutta sola dentro un cielo nero nero
s’incamminò…
Rocco mi chiese se mi dispiaceva per la nonna. Non sapevo rispondere.
E ancora oggi non saprei dire. Ricordo tante cose di lei, i pettinini d’osso che metteva tra i capelli, il disegno delicato dei suoi vestiti enormi, anche la sua dentiera coi denti piccoli piccoli. Ma non ricordo le mie lacrime per lei. Piansero sicuramente le altre bambine, credo più per tutto lo spettacolo che il Palazzo allestì in onore della Morte: il nero e l’oro dei paramenti, le corone dei fiori dal puzzo insopportabile per il portone mezzo chiuso, il librone in fondo alle scale, dove chi veniva a trovare mia nonna lasciava un pensiero, un nome. Piansero, credo, perché vedevano piangere i Grandi. Ma io, a mio padre che piangeva, ero abituata. E anche adesso un uomo che piange non mi commuove né mi pare eccezionale. (continua)