Il Palazzo , A casa e non solo


In casa e non solo

Anche nelle altre case del Palazzo cambiavano le cose, e noi bambini non ci vedevamo più tanto spesso. Maurizio cambiò scuola. Carlo andò via. Rosalba spigò dalla sera alla mattina, e i vestiti le si appendevano a due nocciolini che aveva all’altezza delle tette .
Inoltre si sistemò tra noi tutti un sentimento che credemmo nuovo: l’antipatia. Così, senza apparente motivo, ma con l’ineluttabilità che non bisogna perdere mai di vista, alcuni di noi si diventarono insopportabili . E non sempre nello stesso momento, non sempre reciprocamente. Cosa che ci impastava lo stomaco di tristissima sorpresa ,facendoci anche piangere. Non erano anni in cui i bambini potessero piangere impunemente. In casa, dopo avere escluso un attacco di acetone, ci avrebbero detto di non essere noiosi, di non fare i capricci, che non volevano “sentire volare una mosca”. Fuori casa, gli amici ci avrebbero preso in giro.

Le lacrime potevano essere segno di paura, mal di pancia o mancanza di vitamina B, ma non gli si riconosceva il diritto alla malinconia.
Avevamo tutto, che ci mancava? Per chi era uscito dall’inferno, come i nostri genitori, il purgatorio era un paradiso.

Insomma, cominciammo a non incontrarci più tutti insieme. Io continuai a giocare con Daniela e con Rocco, ma Maurizio preferiva Patrizia (ah!) anche a Rocco. Rosalba stava per conto suo, coi suoi nocciolini.
Claudio volteggiava su tutte noi con lo sguardo da lupo cattivo: non mi sarei più fidata a stare con lui sotto la vecchia coperta.

Per fortuna proprio in quel periodo cominciammo ad andare in vacanza. Si lasciava la casa fasciata in bianchi lenzuoli e si andava negli alberghi. Al mare, in montagna. Chi poteva permettersi “la villeggiatura” era tra gli eletti di quello scampolo di anni ‘50. I preparativi per le estati che dovevano garantirci la salute per tutto l’inverno erano estenuanti per noi bambini. Ci prendevano e ci misuravano mezzo guardaroba. Pomeriggi interi di costumi e magliette e calzoncini e cappellini, per poi scoprire che bisognava ricomprare tutto. In canotta e mutandine bianche, pizzicoso il tutto, si stava in piedi davanti a tutta la famiglia, arruffati da tutto il mettere e levare. Questo dalla testa, quello da sotto. Bottoni che tiravano.
Colli inespugnabili . “Ma come c’entravi l’anno scorso?!” si domandavano i Grandi. Era un mistero anche per noi, che guardavamo quella roba come un serpente guarda la pelle che si è lasciato indietro. Ma non si buttava nulla: si passava a chi aveva figli più piccoli, o ai fratelli minori. Uno stesso copricostume viveva molte estati e vedeva molti mari. Il mio maglione rosso che faceva le scintille quando lo levavo, ha continuato a farle anche per i miei cugini e poi chissà per chi altro. Sono sempre stata convinta, però, che le scintille più luminose le abbia fatte per me.

Prima le nostre estati erano ai giardinetti, tra la giostra e l’asinello, tra il gelato e una barchetta di carta malfatta da far scivolare nei rigagnoli di Villa Borghese. Viaggi brevi e melmosi, che finivano su un fianco e in un accartoccìo. Come le avventure di una sera che partono col vestito stirato e finiscono che lo devi rilavare.
Che tristi pomeriggi, peggio che andare al Verano. Ai giardinetti ci andavo con mia zia Aurora, che mi spariva dietro a qualche appuntamento segreto. La vedevo con qualcuno e lei mi diceva che no, non c’era nessuno, che me l’ero sognato. E comunque non dovevo dirlo alla nonna, ché sennò pensava che ero pazza e si preoccupava.

Sì, la zia Aurora

Non so se pensarla con amore o con rabbia. Ci sono persone che sembrano venire al mondo in maniera funzionale a qualcun’ altra, come per colmare il vuoto creato da un’emergenza. Quando morì mia madre mi misero tra le sue braccia di ventenne nubile. Fu come un “pensaci tu” che dovette sembrarle una condanna a non avere più tempo per pensare a se stessa. Ci si dimentica spesso delle persone alle quali si è chiesto un grande sacrificio, ed è un’ingiustizia. Un’offesa agli affetti. Un tradimento a l’essere eticamente “per bene” cui buona parte della nostra generazione ha dedicato se stessa. Considerare , con banale cinismo, che la coerenza è la maledizione delle teste piccine, non aiuta. Soprattutto quando la memoria si fa prepotente e gonfia il petto:“esisto!” ci sibila dentro una voce sdegnata, e bisogna starla a sentire.

Era una donna teatrale, passionale. Piangeva, strillava, si buttava per terra, picchiava coi pugni, per sfogare le ingiustizie che le urgevano dentro (anche me picchiava, accidenti, per poi chiedermi scusa in ginocchio e farmi promettere che non l’avrei detto a papà), sveniva, prendeva mille medicine, gridava di voler morire e un attimo dopo cinguettava le canzoni che andavano allora, ballando da sola per il corridoio di casa. Capii, dopo tanti anni, che mia nonna era sempre tanto severa con lei per tenerla a bada e proteggerla come una bambina. Io e Bruna avevamo paura delle sue scenate. Guai a non farle trovare pronto in tavola, ma guai anche a farglielo trovare: nel primo caso “non sono una serva”, nell’altro “non servo più a niente”. Guai a svegliarla se dormiva, guai a lamentarsi per qualcosa, guai a non farle festa quando tornava dal lavoro, ma guai anche a fargliene troppa:”Togliti, non mi toccare!”

In casa, a mano a mano che la gente se ne andava o moriva, si chiudevano le tante stanze. Partito per il suo viaggio col tram 11 mio nonno, noi tre si viveva tra cucina, camera mia, camera loro, bagno. Qualche volta, se veniva qualche loro amico, aprivamo il salotto, ma io non ci entravo, perché da lì si andava nella camera che era stata di mio padre, e lui non c’era. Si mangiava poco a casa, si mangiava soprattutto male. Se Lucia non cucinava i suoi piattacci, c’erano solo panini. Imparai a farmene di spettacolari, a strati. Li chiamavo “i superpanini” e tentavo di farli assaggiare a Daniela e Rocco che rifiutavano educatamente, vedendo spuntare dalla ciriola prosciutto spalmato di marmellata, melanzane e arance, cosce di pollo, pasta avanzata…Adoravo i miei panini. Non erano buoni, solo il simbolo che avrei potuto farcela anche da sola .

Ma di mia zia ho anche ricordi di grande dolcezza. Mi insegno’ a leggere, mi comprava i libri ( Salgari, Jerome K.Jerome, Cronin…), mi curava quand’ero malata, mi teneva la mano quando tremavo di paura e non sapevo perche’. Lei mi insegno’ ad ascoltare la musica.

Suonava il piano benissimo mentre io , malgrado le lezioni, producevo all’esterno le stesse disarmonie che avevo dentro. La sera, fin da piccolissima, mi portava nei locali dove si suonava il jazz e dove io mi addormentavo beata. Conosceva i musicisti e loro, continuando a suonare, le facevano un cenno con la testa vedendola arrivare. Sapeva di molte cose, aveva un’intelligenza crudele, intuizioni saettanti, ma a volte diventava ottusa. Anche lei non veniva a capo delle sue disarmonie. Una volta provai a chiamarla mamma e lei si rivolto’ cattiva: “avevi una mamma, non c’è più. Io non sono tua madre”. Ci restai malissimo e non ci provai più. Eravamo in una cartoleria, mi stava comprando dei quaderni a bolli blu e bianchi, matite colorate, la gomma per cancellare. La stessa che avrei voluto usare per far sparire lo sguardo stupito della commessa, che passava da me a lei.
Chissà come avrebbe raccontato quel piccolo dialogo a cui aveva assistito. Mi vergognai sia per me che per mia zia e quando uscimmo dal negozio rifiutai di darle la mano. Però era lei che mi accompagnava alle festine, mi portava al cinema, ai balletti che mi piacevano tanto, a teatro, al cinema dell’ultimo spettacolo che a quei tempi cominciava a mezzanotte. Aveva una 500 celestina che guidava assai male, con Bruna accanto che continuamente le diceva di voler guidare lei, che non voleva morire giovane. Litigavano. Litigavano spesso, ma Bruna poi cedeva e chiedeva scusa anche se aveva ragione.

Mio padre ne era molto geloso di zia Aurora, perché con lui invece non volevo andare da nessuna parte. Una bugia che gli raccontavo, naturalmente: con lui sarei andata sulla Luna e anche su Marte. E ritorno.

A volte, raramente, papà ci portava fuori. Giri in centro. I due fratelli , i miei amati, camminavano lontani e io restavo in mezzo, tra loro, perché non volevo che dando la mano all’uno, l’altro si offendesse.

Ogni tanto Zia Aurora “esagerava”, come i Grandi sussurravano, e mio padre le pagava la clinica per la cura del sonno. Dopo una quindicina di giorni poi, mi spediva con lei in qualche posto per la convalescenza. Per me erano vacanze fuori stagione. Una fu speciale: Taormina. Scoprii di amare la Sicilia, quel paese morbido, i dolci di pasta di mandorle, il blu più blu,  il verde più verde. Mia zia era un po’ rimbambita dai medicinali, ma senza Bruna. Io e lei da sole, a fare colazione con la marmellata di arance che lei mi spalmava su fette di pane caldo, e ad andare al mare quando ancora non ci andava nessuno perché faceva freddo. Leggevamo, inventavamo canzoni, andavamo al ristorante, a comprare cose inutili che, una volta tornate nel Palazzo, sarebbero finite in fondo ad un armadio. Quando rinasceva dalle sue “esagerazioni”  era molto giocosa. Ma non si sapeva mai quando avrebbe smesso di giocare. (continua)

 

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