Il Palazzo, Il Tasso e oltre

Ecco dov’erano i ragazzi e le ragazze con gli occhi brillanti! Gli occhi brillanti abitati da intelligenza ed ironia che avevano gli amici di mio zio Duilio ora erano anche quelli dei miei amici. Ero finalmente a casa. In quel Liceo, li’, c’erano le persone che mi sarebbero state accanto per tutta la vita, lì i miei maestri, il primo amore, la libertà che regala il sapere. Uscivo dal Palazzo di corsa, la mattina, per entrare al Tasso. Due grandi portoni, tra un pianeta e un altro. Prendevo l’autobus numero 4, che era una scuola di vita.
Imparai a dare i pestoni a chi mi toccava il sedere, a fare sempre il biglietto, anche se non c’era il controllore perché così era giusto, a guardare un’umanità’ che nemmeno sapevo esistesse. Si stava stretti e caldi in inverno, stretti e sudati in estate. Me ne sentivo parte.
Avevo un posto nel mondo, e la certezza che il mondo fosse mio.
C’erano tante cose da fare, tante persone da conoscere, tanto da studiare, soprattutto per me che venivo da una scuola di ovatta. Era il 1965, l’America iniziava i bombardamenti in Vietnam, ma apriva anche il Piper: divisa tra indignazione e minigonne cercavo una via di mezzo. Guardavo Daniela ancora con la sua divisa e la strapazzavo.

“Ma come fai?!”

Lei si ribellava a tutto quel blu impelagandosi in un amore sciocco: Claudio mani lunghe, che di lei non valeva un ricciolo biondo. Con gli altri ci sorridevamo estranei. Com’erano diversi ormai i miei amici!

Decisi, e nessuno ebbe a ridire, che avrei mangiato fuori a pranzo, invece di tornare a casa da scuola. Una volta ero stata con mio padre da Cesaretto, in via della Croce, una trattoria con cinque tavoli da sei. Ci si sedeva dove c’era posto. Conquistata da un lindo disordine, andavo lì. Finalmente mangiavo cose buone e soprattutto coltivavo l’arte dell’incontro. In quella trattoria c’erano altri occhi brillanti, e che occhi! Pasolini, Flaiano, Maccari, pittori sgualciti, attori falliti e non, giornalisti. Ero la più piccola: coccolata, difesa, educata. Eravamo tutti legati da un filo rosso e potente: la solitudine. Perché quando si decide di mangiare da soli, si è soli davvero.

Alla fine del mese papà passava a pagare, senza una parola. Erano anni bellissimi, mi vestivo con gli abiti usati che compravo al mercato americano di via Sannio, fumavo le Diana, e mi godevo l’adolescenza, un po’ piangendo e un po’ ridendo. Non ero l’unica a cercare un senso: tutta una generazione bolliva e scalpitava. Quando Franca Viola, nella mia e sua Sicilia, mandò a quel paese il suo rapitore rifiutando il matrimonio riparatore, si capì bene che era primavera. A Milano La Zanzara, giornale del Liceo Parini, fece un’inchiesta sulla posizione della donna nella società e la generazione precedente ne fece un dramma. Caterina Caselli cantava come risposta: ”Nessuno mi può giudicare”, leggera.

La mia carriera scolastica non era eccezionale, ma nemmeno disastrosa.
Con i compagni si stava molto insieme a studiare, chiacchierare, progettare, amoreggiare. A casa stavo poco. Zia e Bruna si occupavano di mio nonno che non si decideva a morire. Un giorno trovai un biglietto, c’era scritto che partivano per il sabato e domenica e che avrei dovuto pensarci io. Lui mi guardò:

“Alessandro, ci facciamo una pasta?” mi disse.

Feci quello che sapevo, che avevo visto fare a Lucia. Ne venne fuori un qualcosa che ci mangiammo insieme al tavolo di marmo della cucina. Mio nonno rideva.

“che c’è?”
“non sai cucinare…”
“Ora si va a letto…”

“Pipì”. Caspita, questa non me lo aspettavo. Bisognava fargliela fare e poi lavarlo. Ci sono delle cose che è strano dover fare. Strano toccare un corpo che seppur amato, non si conosce per nulla né si vuole conoscere. Quelle due avrebbero potuto almeno insegnarmi, prepararmi. Ma lo feci. Poi spogliai mio nonno e lo misi a letto.

“tu non mi vuoi bene!”  lacrime agli occhi, perché aveva l’Alzheimer ma mica era scemo, l’avevo sballottato, maneggiato con rabbia

“Certo che te ne voglio, tantissimo!” Era vero. Spensi la luce, andai nella mia stanza e dopo pochi minuti me lo ritrovai davanti. Tutto vestito, cappello compreso.

“pipì” disse. Si ricominciò daccapo.
“ora si dorme!”
“Alessandro, si va a mangiare al ristorante?”
“è notte, dormi”
Dieci minuti ed eccolo lì:
”andiamo?”

Ricordai che c’erano delle medicine da dargli se era agitato, ma quante pasticche? Decisi una. No, due. Quando vidi che se l’era fatta sotto decisi per quattro. Gli rimboccai le coperte:
“Vedrai che ora andrà meglio”. Si addormentò di botto. Dormiva così profondamente che pensai  di prendere la vespetta e raggiungere i miei amici ad una festa. Tornai verso le 3 del mattino e vidi che le finestre di casa mia erano tutte accese. Sulla facciata del Palazzo risplendevano come un guaio grosso. Quattro pasticche erano troppe.
Lucia era passata a vedere come me la cavavo, ma io non c’ero e mio nonno, seppur pulito e a letto, non si riusciva a svegliare. Telefonò a mio zio, che chiamò il dottore. Erano tutti lì ad aspettarmi.

“Be’? Manca qualcun altro? Non l’avete una casa?” Spavalda. Ma mio zio mi conosceva bene, non disse nulla, e pochi minuti dopo, una volta soli, piangevo disperata abbracciandolo. Nonno si riprese ma non me lo affidarono più completamente. (continua)

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