Il Palazzo, Sessantotto e dintorni

Gli anni cominciarono a fare come il mare coi granchietti: ogni onda ci spingeva un po’ più in là, verso quello che chiamavamo ancora futuro, ma era già presente. Ero innamorata di un ragazzo con occhi fantastici che cercava di ordinarmi la vita. Studiava con me, mi portava al cinema Nuovo Olimpia tutti i pomeriggi e anche in un sottotetto che dividevamo con altri compagni del Tasso. Il primo grande amore. Quando mi tradì, capii che i grandi amori valevano sì la pena di essere vissuti, ma facevano molto male. Lui e i suoi occhi tornarono, io iniziai a sfuggirgli come un’anguilla. Mi rintanavo tra le molle di una vecchia poltrona del Folk Studio di Via Garibaldi, ad ascoltare il jazz che mia zia mio aveva fatto scoprire. Quando papà mi disse che o mi comportavo in maniera decente (quale fosse, non me lo disse mai) o non mi avrebbe più dato un soldo, cominciai a lavorarci: cassa e bar. La mattina a scuola. Amici, amore e musica: che c’era di più? Tantissimo: c’erano i nemici. Il ’68 arrivò, ci sommerse e ci cambiò per sempre. Nemico era l’Autorità’ in tutte le sue forme.

Nemica la guerra in Vietnam. Nemica l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche che rubava agli operai la mente e la vita. Nemica la borghesia che si era pasciuta nel boom economico mentre la maggior parte dell’Italia restava contadina, arretrata nell’istruzione, quindi senza speranza. Nemico era per le donne l’uomo che le teneva in casa a far figli e badare a casa e anziani. Nemico il Pregiudizio contro gli omosessuali, i diversi colori della pelle, le altre religioni. Nemici, soprattutto, i fascisti, nostalgici o nuove leve che fossero. Quelli che “Vengo a scuola per studiare, io, non per fare politica!” e che ora siedono in tutti i rami del Parlamento, o che “penso con la mia testa, non mi faccio strumentalizzare!” e ancora oggi a pensare non hanno imparato. Avremmo pagato col sangue la convinzione di essere i Migliori. Il Potere avrebbe messo bombe sulle nostre strade. Ci avrebbe confuso mescolando tra noi quelli che chiamavamo “compagni che sbagliano” ed erano invece solo assassini. Ci avrebbe foderato le menti di eroina e bucato con aghi avvelenati la pelle che usavamo per fare l’amore con gioia e libertà.

Eravamo una marea vivente senza alcuna smania di potere. Le nostre esperienze volevamo fossero etica collettiva: questo significava “lottare”. La nostra battaglia culturale aveva anche aspetti materiali e si capì subito il 1° marzo ’68 alla facoltà di Architettura di Valle Giulia: botte e botte. Ma già a maggio tutte le università italiane, esclusa la Bocconi, erano occupate e noi studenti marciavamo accanto agli operai.  Mio padre insegnava a Ingegneria, gli studenti l’avevano contestato in molte occasioni e nelle rare volte che ci s’incontrava, guardava anche me con ostilità.

“Che vuoi fare della tua vita” mi chiese un giorno.

“Non te ne occupare” gli risposi ”finisco scuola e me ne vado. Trovo un lavoro e m’iscrivo a Sociologia.”.

Non so se mi prese sul serio, ma avrebbe dovuto, perché avevo le idee molto chiare, anche se la vita me le avrebbe spettinate per bene.
Nonno prese un raffreddore e se ne andò col tram 11 in una settimana. Io studiavo per gli esami di maturità e proprio allora Bruna decise di scappare. Mi svegliò all’alba e mi disse che sarebbe sparita, mi diede un indirizzo ma mi chiese di non darlo a zia.

“se hai bisogno mi chiami…” mi disse

“tranquilla, tra poco vado via anch’io. Buona fortuna”

Cominciò l’inferno in casa. Zia immaginava che io fossi complice di quella fuga, così me la trovavo seduta sul mio letto di notte, che piangeva e mi supplicava di dirle dov’era.

“ma ti pare che se lo sapevo non te lo dicevo?!” mentivo. Sì, ero complice. Capivo Bruna e stavo dalla sua parte. Ogni tentativo di mia zia per rintracciarla fallì. Fallirono anche i tentativi di suicidio, le scenate che lei faceva ai loro amici e gli interrogatori ai quali mi sottoponeva. Bruna mi chiedeva al telefono ”ce la fai?” ed io le rispondevo di sì. La rassicuravo:

“sai com’e’ fatta, non voleva morire davvero”. Arrivò un’estate bollente, e il giorno degli esami. A sentirmi venne un De Gregori magro come un levriero e ancora sconosciuto, con la mia amica Patrizia, alla quale avrebbe dedicato Rimmel. Quando i professori la finirono di farmi domande e fui promossa, ce ne andammo a mangiare a Trastevere. Tornai a casa tardi e quella volta zia ci aveva provato con più sentimento. Non respirava. Chiamai l’ambulanza, e subito dopo mio zio.

“Vieni, io me ne vado. Zia ha preso molte pasticche e non so se ce la fa”. Ce la fece. Me lo disse mio zio che l’aveva portata, appena dimessa, a casa sua. Le due sorelle, le mie zie, si ritrovarono insieme in una stessa casa e facevano scintille. Mio zio disse però che io avevo bisogno di riposare: le avrebbe tenute a bada. Come aveva fatto Bruna, gli chiesi di non dire a zia dov’ero, ma gli lasciai l’indirizzo di una comune di compagni che mi avrebbe ospitato.
Saggiamente mio zio estese la mia raccomandazione anche a papà, rassicurandolo però che stavo bene. Si diventava maggiorenni a 21 anni e me ne mancavano un paio: non voleva che mio padre mi scatenasse dietro le forze armate. Per qualche mese zio Duilio fu l’unico contatto con la mia famiglia. Facevo molti lavori, quelli di allora: baby sitter, mezza giornata in un negozio di ceramiche, mezza in uno di vestiti, la sera al folk studio. Ogni tanto Ernesto Bassignano che aveva un po’ di soldi perché cantava già nelle feste del PCI, mi metteva la benzina nella vecchia 500 celestina che avevo ereditato da mia zia. Da Cesaretto mangiavo praticamente gratis “Luciano, ti sei sbagliato, non può essere così poco”

E lui faceva finta di non sentirmi. Il barone Franchetti, eccelso collezionista d’arte, sapendo quanto mi piacesse leggere, mi prestava libri (“lo devi leggere anche tu: è bellissimo!”) che poi scoprivo invece, essere nuovi. Plinio De Martiis mi prese a lavorare nella sua galleria, la Tartaruga, dove nasceva e si nutriva tutta l’avanguardia degli anni ’60 e ’70.

M’iscrissi a Sociologia e cercai una casa. Ne trovai una minuscola a Campo de Fiori, arrampicata su un tetto. L’affitto era di 25mila lire.
Chiesi a Daniela se voleva dividerlo con me, come dividevamo il piccolo gruppo femminista, le assemblee, le manifestazioni. Così come avevamo diviso l’infanzia e l’adolescenza. Sì, naturalmente. Ma volevano una caparra di tre mesi e nessuna delle due aveva soldi.
Andai da mio padre. Mi affacciai alla porta del suo studio e lo guardai lavorare. Era serio, era triste. Non si accorse subito di me, ma i suoi collaboratori sì. Lui seguì i loro sguardi imbarazzati e arrivò a me che tutto d’un fiato dissi.”ho bisogno di 75 mila lire. Se me le vuoi dare bene, altrimenti mi arrangio, ma rischio di perdere una casa che ho trovato. Poi non voglio più niente.”

“Dov’e’ questa casa? La voglio vedere” Mi accompagnò, stipulò il contratto a suo nome, pagò la caparra. Mangiammo insieme in una trattoria di Campo. Si vedeva che gli faceva orrore e che avrebbe mangiato piuttosto in un secchione della spazzatura. Facemmo discorsi vaghi, senza dirci nulla. Avevamo entrambi paura di dire, chiedere, sapere. Avremmo parlato molti anni dopo, su un treno che ci portava a visitare mia zia, molto malata, che si era trasferita in Toscana.
Andammo in treno perché io non volevo salire sulla sua macchina:”Vado in treno, tu non sai guidare, ci vediamo lì”. Ma venne anche lui e, cullati, cominciammo a parlare. Mia madre, sua madre, le sue sorelle, e tante donne ancora ci avevano diviso. I nostri caratteri ombrosi. Le nostre solitudini. I nostri rancori.  E ci riconoscemmo. Era lucente per l’uno il dolore dell’altro. Alla stazione di Firenze faceva freddo e ci abbracciammo, davvero, per la prima e forse unica volta.

Ma dopo quel pranzo passò ancora del tempo prima che ci si rivedesse.
Quando la mia nuova casa fu pronta decisi di andare a prendere le mie cose nel Palazzo. Aprii la porta della mia vita passata e…non c’era più nulla! L’appartamento era completamente vuoto. Solo una pila di libri occupava il centro di quella che era stata la mia stanza. I dischi, i letti, le grandi poltrone a fiori, le lampade, le belle stoffe delle tende e dei copriletto, e poi i quadri, i mobili, i mille ninnoli , i cristalli, gli specchi, il pianoforte, perfino il tavolo di marmo della cucina: niente. Furiosa spalancavo le porte di ogni stanza. Mugolavo di rabbia, e non avevo neppure qualcosa da spaccare.
Che vendetta si era presa mia zia per il nostro abbandono! Ci aveva fatto scomparire tutti. Ci aveva venduti ad uno stracciarolo per pochi soldi. Guardai i libri ed erano solo quelli delle scuole medie: aveva venduto anche la mia anima .

Non avevo più niente da fare in quella casa. Mi tirai dietro la porta, feci per l’ultima volta i gradini di marmo e aprii il grande portone del Palazzo. Si chiuse alle mie spalle con un rumore che qualche volta, al mattino, ancora mi sveglia e mi fa battere il cuore troppo forte.      (FINE)

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