Il Palazzo, Noi


Noi

Giocavamo con una certa serietà. Conte e cantilene erano parole che rotolavano insieme alla palla, erano intessute nella corda che ci faceva saltare. Mai ne avremmo messo in dubbio il valore magico. La Regola.

Ambarabbàcicciccoccò
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore
il dottore s’ammalò
ambarabbàcicciccoccò

E a chi toccava toccava. Era Rosalba che insegnava a tutti le parole magiche. Era più grande? Non ricordo. Era sicuramente più vecchia. E già studiava, già faceva i compiti con la pedanteria dei figli dei poveri che devono riscattare tutta la famiglia. Rosalba si allenava a fare “la moglie e la madre esemplare” come si legge sulle tombe di tante povere donne. Se avessi voglia di cercarla, oggi, sono certa che la troverei con l’aria placida delle mucche che hanno dato molto.
Quelle mucche che hanno un nome e che i bambini dei fattori dovrebbero per correttezza chiamare “mamma”.
Anche Patrizia era un po’ vecchia. Però si vedeva che scalpitava. Le facevano lavare i piatti dopo pranzo, ma sbrigava in fretta quella faccenda che doveva ricordarle d’essere una femmina, e poi faceva altro. Spesso ci scambiavamo dei libri. A lei li passava sua sorella, una ragazzona che morì presto e improvvisamente. Nel tempo, furono libri disegnati, poi di favole, poi i Salgari, poi i Delly rosa che parlavano d’amore. Arrivammo fino a un Pavese, ma di nascosto. Patrizia abitava proprio davanti a me. Sarà funzionaria di qualche ministero, un gradino avanti ad altri, tanto per gradire.
Riccardo e Rossana abitavano nel seminterrato. Un passo dall’inferno, avevano finestre alte che incorniciavano un mondo di scarpe, ruote e cani. Sempre insieme, non credo d’averli mai considerati come due persone distinte. Parlavano in dialetto umbro, se parlavano.
Nemmeno quando si ruppe un braccio in tre punti Rossana disse molto. Avevamo fatto una catasta di mattonelle, pezzi di legno e cartoni. Ogni volta aggiungevamo uno strato di qualcosa e vinceva chi sapeva arrampicarsi e poi saltare giù. Rossana volò giù pesante e si accartocciò sul suo braccio. Seduta in terra, in mezzo al nostro Cortile, sollevò perplessa un braccio che le pendeva dove non avrebbe dovuto. Arretrammo tutti con orrore. Lei sgranò gli occhi sul fratello, e quello chiamò: “Oh, Mà!”. La madre arrivò, ci maledisse e la portò via.

Casca il mondo
casca la terra
e tutti giù per terra

Rocco e Maurizio erano amici. A me piaceva Maurizio, ma io piacevo a Rocco. Una tragedia. Non lo sapevamo, ma già’ prima dei 10 anni stavamo facendo le prove generali per i 20, i 30, i 40…
Maurizio era alto, per la sua età. Dai colletti delle sue camicie saliva un odore di saponetta e aveva le orecchie sempre pulite. Era gentile e attento a non sporcarsi . Sarà uno di quei manager con la ventiquattr’ore, quei maschi carini da bambini e sciapi da adulti.Facile che abbia detto qualche volta ”Lei non sa chi sono io!”.
Rocco portava maglioni che odoravano dell’ultimo pranzo, i capelli avevano vortici creati dal cuscino, e parlava, si muoveva, gridava troppo. Suo fratello già’ lavorava. Era come Rocco, solo più grosso. Rocco lo riconobbi anni dopo in una manifestazione del PCI dal vortice nei capelli e da quel modo di muoversi come su un ring. Sorrisi dentro, ma non lo salutai.

Carlo era un bambino grasso. Nel Palazzo abitò pochi anni, il tempo di ingrassare un altro po’ e arricchire la nostra fantasia stimolandoci ad inventare nomi nuovi per chiamarlo.

Cicciabomba cannoniere
ogni passo fa tre pere

Non era simpatico, Carlo, ma perché avrebbe dovuto? La sua stessa carne non era buona con lui. Il padre era un medico famoso e lui se ne vantava. Naturalmente a noi non importava nulla di cosa facesse suo padre, e Carlo ci restava male. Era l’unico che scendeva in Cortile con la merenda. La madre lo guardava dalla finestra , lui ogni tanto si sentiva silenziosamente chiamato, e alzava la testa. Quando andò via, suonò alla mia porta per salutarmi. Era sudato, emozionato. Non capivo, non m’importava. Non mi sarebbe mai mancato. Mi regalò un diario con un lucchetto per farsi ricordare. E fu il mio primo diario. Di femmine se ne intendeva: aveva tre sorelle belle floride, il ritratto della salute. Sarà medico anche lui.

Claudio era il più grande. Mani lunghe. Ci passammo tutte per quelle mani, anni dopo. Il nostro segreto. Aveva due fratelli fidanzati. Claudio ci raccontava quello che facevano con quelle ragazzette che vedevamo arrivare la domenica con i fiori per la futura suocera. Aveva dato una fine al nostro essere donne: entro i 25 anni , matrimonio o convento.
Dopo non saremmo più servite a niente. Non poche angosce provocò quella sua certezza, a noi piccole femmine. Farà il venditore di qualcosa. Uno di quelli che raccontano le barzellette .

E poi c’era Daniela. Comparve all’improvviso dietro i vetri del secondo piano, in quell’appartamento lasciato vuoto per tanto tempo. Alzai gli occhi e la vidi. Mi sembrò subito bellissima. Anche gli altri smisero di giocare e guardarono in su. Lei non ci sorrise, e anzi lasciò vuota la finestra, ritirandosi come fanno gli animali dentro il guscio.
La sera i suoi genitori scesero a casa nostra per conoscere i miei nonni. La mia era la famiglia più anziana del Palazzo e le era riconosciuta una certa autorevolezza. Non era raro che quelli delle altre case venissero a chiedere un consiglio a mio nonno o a fare una confidenza alla nonna. Daniela mi fu presentata come “la mia nuova amica”. Veniva dall’America, parlava male italiano, ma aveva i capelli biondi e gli occhi verdi, come le bambole migliori. Ne fui tragicamente conquistata. A diciotto anni saremmo andate a vivere insieme e poi avremmo litigato, giurandoci un odio eterno. Un giuramento non mantenuto, ma sarebbe stato meglio, perché ci diventammo invece indifferenti. (continua)

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