Il Palazzo, Lucia


Lucia

Ero l’unica ad avere una tata. Lucia venne a svegliarmi una mattina, materializzata al posto di Adele (la mia pelosa Adele, che odorava di torte e sapone da bucato!) Questa era un’estranea. Parlava strano, la seguii per fame. Era quasi nana, e tentava di sollevarsi con una torre di capelli e con tacchi che le facevano somigliare i piedi a zoccoli di vitello. In mezzo ,tra capelli e zoccoli, c’era una donna compressa e non buona. Veniva dalla Puglia dei paesi, ma era stata qualche anno in Argentina. Cosa che convinse subito mia nonna a prenderla. Mia nonna aveva lasciato in Argentina un suo grande amore, e si circondava di tutto ciò che potesse ricordarle il sacrificio di aver dovuto sposare mio nonno. Lui, quell’altro, si fece prete, e per mia nonna fu immediatamente mito.
Lucia accompagnava spesso noi bambini a scuola o dove dovevamo andare.
Ci faceva sciamare fuori dal Palazzo, ma non era più alta di noi. Aveva un fidanzato che si chiamava Vittorio e che la faceva patire. La domenica, prima di uscire con lui, passava le braccia sul fornello, per bruciare i peli. Si arricciolavano e cadevano, lasciando per la cucina l’odore di un pollo mal spennato fatto arrosto. Usciva con mia gioia.
Cominciammo male. Quella prima mattina lei mi mise davanti una tazza di latte. Io non bevevo latte, lo sapevano tutti. Non glielo dissi nemmeno, troppo occupata a esplorare il bizzarro esemplare che era. Però, visto che insisteva, e anche con suoni duri, mi disinteressai e presi le campanelline di ceramica che mia nonna mi lasciava sul tavolo della cucina ogni mattina. Per svegliarla quando mi svegliavo.

Din din din

Lucia fu rapida: afferrò le campanelline , aprì la finestra e le gettò in Cortile. S’infransero. Restai a bocca aperta. Chi era quella donna? Ero ancora a casa mia? Gridai, chiamai. Lucia chiuse la porta della cucina. Parlava, ma non la capivo. Presi il bicchiere di latte e fui rapida anch’io: s’infranse accanto alle campanelle. Qualcuno apparve: “Lasci , faccio io…”. Allora sapevano! Io e Lucia stavamo in mezzo alla cucina, misurandoci, piccolissime, come due titani pieni di rabbia. Restò con noi fino a quando non me ne andai di casa, a 18 anni. Si era sposata, aveva avuto un bambino, ma ogni mattina tornava nel Palazzo per svegliarmi e farmi la colazione. Un rito d’odio. E non si odia mai per caso, mai chi non ci odia egualmente, anche se in forme amorose.
Lucia faceva la spia. Noi bambini non le dicevamo mai niente, ma lei scopriva sempre tutto. E lo diceva a mia nonna. Di lì le informazioni passavano alle mamme degli altri. E gli altri se la prendevano con me, ma io non riuscivo a farla cacciare. Lucia era come una cozza attaccata allo scoglio di mia nonna.
Mi prendeva in giro per Maurizio. Ci chiamava “i fidanzati”. E noi che neppure ci guardavamo per non arrossire… Sembrava leggerci nel cuore l’inconfessabile: “Rocco, ti devi trovare un’altra fidanzata: questa si sposa con Maurizio”. Rideva, stracciando i patti d’amicizia che c’erano tra noi bambini, che non eravamo più angeli, ma non ancora diavoli.
Dovevamo sembrarle dei bambini fortunati. E lo eravamo. Ma fino a quando lei non arrivò, non sapevamo che questo fosse male. Non sapevamo che l’invidia portasse jella, fino a quando Riccardo e Rossana non cominciarono a fare le corna ogni volta che vedevano Lucia. Cominciammo a farle tutti, e ci sentimmo un po’ più sicuri.

“Vuoi sapere cosa faccio con Vittorio?” mi chiese una volta, mentre lei stirava e io facevo i compiti. Certo che volevo saperlo. A 8 anni sono cose che interessano sicuramente più che a 20. Mi ritrovai con la sua lingua in bocca e le mani dove mia nonna non voleva neppure che mi lavassi troppo a lungo. “Se lo dici finisci alla Chaqarita ” mi disse. La Chaqarita è il cimitero di Buenos Aires. L’idea di ritrovarmici all’improvviso, trascinata dentro la terra, via veloce nello spazio e nel tempo, mi fece tacere.
Mi faceva vedere spesso cosa faceva con Vittorio. Io lo facevo vedere a Daniela. Lei ad una sua cugina. Finché sua madre non la scoprì. “Chi ti ha insegnato queste cose?!”, ma Daniela non era una spia. Anche quella volta ce le prese. Ce le prendeva sempre. E poi la madre veniva da mia nonna a dire che non sapeva come fare con quella figlia. Le mostrava i palmi delle mani arrossate: “Questo per picchiarla!”, e voleva essere compatita.

Un giorno eravamo tutti a pranzo. C’erano le seppie ripiene e Lucia le servì. Mio padre disse che il tale si era fidanzato. “Allora le mettela lingua in bocca” dissi io. Gelo. Tutto fermo. Mio nonno sorrideva, gli altri no. Rimasi con la bocca piena. Lucia guardò mia nonna e mia nonna tirò fuori una voce da arma da taglio: “Lucia, dopo venga da me”. Si entrava nella stanza di mia nonna raramente, e se ne usciva, se se ne usciva ,con qualche problema in più. Era la coscienza a risentire di quelle visite al tempio, dove mia nonna era insieme sacerdote e vestale delle Regole della Vita.
Rimasero chiuse in quella stanza per due ore. Mio padre non andò neppure a fare la siesta, scappò via in fretta, ché qualcosa a che vedere con Lucia ce l’aveva pure lui. Le zie mi guardavano: forse sapevo più di loro? Non avevano vigilato abbastanza su di me? Mio nonno ronfava sulla poltrona del salotto. Quando vide Lucia che usciva dalla stanza di mia nonna con gli occhi rossi, chiese: “Ma oggi niente caffè?”
Lucia rimase. Non si sa come né perché. Ma rimase. Con più potere di prima. Aveva suonato di mia nonna corde misteriose. Se anche mio nonno e i suoi figli avessero saputo dove erano nascosti in lei Comprensione e Perdono, sarebbero vissuti con meno affanno.  (continua)

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