Il Palazzo, L’asiatica


L’asiatica

Per un po’ di mesi il Cortile restò vuoto. Noi bambini eravamo malati, avevamo l’asiatica. Un’influenza fetente, che ci aveva spalmato nei letti senza voglia di sorridere. Proibito alzarsi, ma non ce l’avremmo nemmeno fatta. Nelle stanze in penombra avevamo l’aria adulta dei bambini che soffrono. La sorella di Patrizia si arroventò di febbre fino a morire e fu paura.
I Grandi camminavano in punta dei piedi ed erano dolenti. Dalla mia stanza sentivo il campanello della porta, bisbiglii, parole, toni alterati. I Grandi del Palazzo complottavano contro la morte, facevano piani per salvarci. C’era un medico, dovevamo chiamarlo “zio Giorgio”, che ci curò con iniezioni e sciroppi. Curava tutti. Prendeva l’ascensore e andava all’ultimo piano, poi scendeva. Casa per casa, da noi che non sapevamo se essere contenti o no di quelle sue visite. Ogni iniezione ci portava un pupazzetto montato sul legno, con le giunture legate da un filo: spingendo un bottoncino sotto al pezzo di legno, i pupazzetti piegavano la testa e le ginocchia. Quando venni fuori da quella tempesta di lenzuola, sulla testiera del letto avevo decine di giraffe, clown, cagnolini.

Mia nonna sedeva accanto a me su una poltrona. Faceva il tombolo con rocchetti d’avorio gonfi di filo bianco che le volavano tra le dita

tic tic titic tic tic titic

Conservo quei centrini di febbre e angoscia. Dormo ancora nelle lenzuola di lino con le ferite di quei ricami d’ingegno. I pensieri di mia nonna diventavano angeli e farfalle, fiori e geometrie

tic tic titic tic tic titic

Ipnotizzava la morte, le ingarbugliava i progetti che aveva su di me avvolgendola in trine delicate e invincibili. Gorgogliavano, nelle loro vasche, i bambini annegati. Ma noi non morimmo. Scendemmo invece dai letti con le gambe magre e gli occhi cerchiati di scuro. Mio padre, felice, mi diceva: “Fammi vedere i muscoli!” e io gonfiavo, fiera, un toracetto da due lire.
Non so quanto durò, ma fu il tempo necessario a perdere la prima elementare. I più forti di noi cominciarono ad andare a trovare gli altri, accompagnati dai genitori. Eravamo diventati tutti come più timidi. Sapere che non eravamo immortali ci aveva fatto perdere il tono stridulo della voce. Ci appoggiavamo ai grandi, li abbracciavamo forte, ché non ci lasciassero andare. Languidi, lasciavamo che ci ingozzassero di zabaione e carne di cavallo.
Nessuno bussò alla porta di Patrizia. Non uscivano rumori da quella casa, come se si fossero tutti ritirati nel fondo di qualche stanza segreta. Il Palazzo proteggeva il dolore di quella famiglia rendendo opachi gli ottoni della loro porta e più forte, più scuro, il legno.
Quando i muri del Palazzo ci portarono l’eco delle botte che Daniela aveva ricominciato a prendere dalla madre, ci considerammo tutti guariti.

Durante la nostra assenza i topi avevano occupato il Cortile. Uno, con dei grossi denti gialli, non scappava se gli correvamo addosso urlando, per cacciarlo via. Si accostava un po’ di più al muro, ma non abbandonava la postazione. Doveva essere un vecchio topo, un veterano di chissà quante guerre. Grosso e sporco, aveva la coda larga due dita delle nostre e lo sguardo fiero.
Gli altri topi erano meno tenaci, si lasciavano spaventare. Non li rispettavamo, così vincerli era più facile. Claudio aveva trovato una scopa di saggina nel ripostiglio delle scale e riusciva a farne fuori anche tre, prima di tornar su a casa per la merenda. Li spingeva contro il muro, gli faceva leva con la scopa, li faceva volare in aria e poi gli dava un colpo secco. Morti o tramortiti, li prendeva per la coda e li mostrava a noi bambine. Faceva il gatto. Rocco e Maurizio non lo sopportavano, forse ne erano gelosi. Ogni tanto si picchiavano, infatti, e per dei motivi che noi femmine giudicavamo assolutamente sciocchi. Invece no: erano degli ottimi motivi . L’avremmo capito qualche tempo dopo. Ci abituammo al vecchio topo. Ogni tanto attraversava il Cortile, passandoci tra le gambe tranquillo. Sarebbe stato facile dargli un calcio, ma non osavamo. E poi, che male ci faceva? Abitava il Palazzo sicuramente da più tempo di noi. Lo vedevamo sparire nella fessura della porta che portava alle vasche: non aveva paura nemmeno dei bambini annegati. Rocco gli portava dei pezzi di formaggio. Riccardo e Rossana riuscivano a toccarlo mentre lui, con la testa piegata di lato, pronto a mordere, subiva quella gentilezza di cui non sentiva il bisogno. Rosalba e Daniela, per una volta d’accordo (non si piacevano: l’idea che l’altra fosse stupida travasava in loro come in vasi comunicanti) dicevano che ci saremmo sicuramente presi una malattia a trattare con quell’animale. Quando sentiva che eravamo in Cortile sbucava e ci guardava serio. Secondo me pensava. Gli venivano in mente delle cose che gli facevano fremere i baffi e arricciare il pelo sulla schiena. Schioccava la lingua e sospirava. Quante mogli, quanti figli gli avevano ucciso? Forse talmente tanti da fargli credere che non valesse più la pena di voler bene a qualcuno. Cominciai a odiare Claudio anch’io, ma questo non m’impedì , a 13 anni, di salire all’ultimo piano con lui.
Una volta chiesi a suor Caterina , mani secche e unghie bianche, se gli animali erano intelligenti. Lei disse che no, assolutamente no: vivevano d’istinto. Solo gli uomini pensavano. Non le credetti, naturalmente. Anche perché avevo fatto la stessa domanda a mio zio Duilio, e lui mi aveva detto il contrario. Che sì, erano intelligenti e qualche volta più degli uomini.
Con il tono di quando era necessario comunicarsi cose sconvenienti, a casa dicevano che mio zio era comunista. Ma a me piaceva lo zio, e anche quei suoi amici con occhi vivaci . Volevo dunque diventare comunista anch’io. Lo confidai a Rocco e lui aderì in modo entusiasta a quel progetto. Lo trasformammo subito in un segreto tra noi : io non lo dissi a Daniela, né lui a Maurizio.
Per un tacito accordo noi bambini non parlammo del topo ai grandi. Non parlammo nemmeno degli altri topi, veramente. Quelli morti li facevamo sparire tirandoli su una tettoia dove erano già finite molte delle nostre palle. Un cimitero colorato per esserini grigi. Chissà che avrà pensato la persona che ha pulito quella tettoia. Perché qualcuno, prima o poi, l’avrà pulita. O forse no. E lì sopra ci sono ancora le nostre palle e i nostri topi. (continua)

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