Mio figlio ha dieci mesi. La prima parola che ha detto è stata papà. Per dirla prendeva la rincorsa: muoveva le labbra come un vecchio che si aggiusti la dentiera e alla fine spiccava il salto del pa-pà. Papà, per lui, è una parola polisenso. Vuol dire pappa, papà, molte altre cose.
Qualche volta vuol dire anche mamma. Ogni tanto, invece che papà, mio figlio dice pa-pa-pà.
Così penso si immagini un altro tipo di papà. Più grande e forte, proprio come un Papapà, capace di imprese da romanzo (romanzo cavalleresco, beninteso): attraversare fiumi con un balzo, saltare a piedi pari le montagne, sconfiggere brigate di giganti o fare a pezzi orde di saraceni. Poi lui dice pa-pà e io ritorno il papà di tutti i giorni. Coi pannolini, le pappe sul fornello, l’arma spuntata e i conti da pagare. Un papà piccolo, con le braccia corte, che non servono a sconfiggere i giganti, però sono perfette per stringere un bambino.