La notte del 9 ottobre 1963, morirono 1917 italiani. Morirono tutti insieme, travolti da un’immane ondata che scavalcò la diga del Vajont, orgoglio dell’ingegneria italiana, cancellando la cittadina di Longarone e diversi comuni limitrofi, con tutti i loro abitanti .
Dopo la disperazione (io me la ricordo, avevo nove anni e tutti erano sconvolti come mai avevo visto prima), seguirono il cordoglio, la ricostruzione e anni di indagini per individuare le cause di quell’immane disastro. Alla fine risultò senza ombra di dubbio che i tecnici avevano colpevolmente sottovalutato le condizioni geomorfologiche delle montagne circostanti la diga, dalle quali si staccò una frana di proporzioni inimmaginabili (e infatti non previste dai tecnici) che provocò l’ondata assassina. Magari sarebbe bastato intuire che il monte Toc, crollato rovinosamente nell’invaso idrico, doveva il suo nome all’aggettivo friulano “patoc”, cioè marcio.
Le indagini e il processo ai presunti responsabili durarono quasi dieci anni, costellati di insabbiamenti, perizie e controperizie, accertarono alcune responsabilità di ingegneri e tecnici della società costruttrice SADE, poi nazionalizzata tramite la Montedison. Ci furono condanne tutto sommato lievi, suicidi, risarcimenti. 55 miliardi dell’epoca, ripartiti equamente tra ENEL, Montedison e Stato Italiano, divisione sancita definitivamente nell’anno 2000.
Ci furono allora, è naturale, polemiche di stampo politico, perché a denunciare le perplessità e i rischi connessi alla diga era stata Tina Merlin, giornalista dell’Unità. Indro Montanelli e Dino Buzzati presero posizione in senso garantista, ritenendo che non dovessero verificarsi campagne e strumentalizzazioni politiche su quanto avvenuto, prima dei dovuti accertamenti.
In seguito, Montanelli chiarì la sua posizione, sostenendo che all’epoca voleva evitare un “anticipo di condanna basato su delle voci”, poiché secondo la sua opinione “in quel momento era largamente condiviso il sospetto che quelle voci volessero soltanto giovare alla causa di quella parte politica che reclamava la nazionalizzazione dell’industria elettrica”. Quando le responsabilità penali furono accertate, accertate si scusò comunque: “Con questo, non intendo difendere un errore. Lo commisi. Ma temo che, in analoghe circostanze, tornerei a commetterlo”.
Come non pensare oggi, ricordando la terribile vicenda del Vajont, alla tragedia di Ponte Morandi? Ciò che emerge vistosamente è (volutamente non entro in questioni tecniche, di pertinenza degli inquirenti) la diversa statura dell’intera compagine italiana rispetto a cinquant’anni fa. Alla sacrosanta richiesta di fare chiarezza e individuare con l’indispensabile rigore le responsabilità si è sostituito, soprattutto nel corso degli ultimi anni, il germe di una mala pianta: lo sfruttamento strumentale immediato di qualsiasi evento a fini politici, senza alcun rispetto per una verità tutta ancora da stabilire sia dal punto di vista tecnico che amministrativo.
L’urgenza assoluta, scriteriata, scellerata per il bene comune, è diventata additare il colpevole che più fa comodo alla strategia di annientamento del nemico politico. Senza scrupolo alcuno e senza nemmeno un briciolo di paura che la verità possa emergere con altri contorni, magari di segno opposto. Tanto ciò che conta, oggi, è il dominio sistematico e capillare dei mezzi d’informazione. Sempre più condizionati dal capitale e dall’assoluta assenza di controllo delle praterie selvagge del web, dove le panzane dettano legge e l’odio cresce in silenzio.
Fino a quando l’ondata travolgerà tutto e tutti, come quella notte del ’63.