New York, 20 gennaio 2017 – Stanotte, mentre la lancetta dell’orologio mi dice che quel 20 gennaio, tanto temuto, è arrivato, decido di raccontarvi questa notte americana e, il suo prossimo risveglio.
Persino per me, cresciuta in una famiglia di cortei e pugni alzati, il sostegno di questo paese per il presidente uscente, Barack Hussein Obama, è, a volte, quasi incredibile. Dopo quasi dieci anni vissuti qui, coincisi quasi esclusivamente con i due mandati della sua presidenza e, dunque, con due campagne elettorali, sofferte e avvincenti, però, ne comprendo lo spessore piu che se vivessi altrove.
Non si tratta, in questo caso, di essere in grado di conoscere delle informazioni, cosa oggi possibile a qualsiasi distanza: si tratta di aver sentito sulla propria pelle l’emozione, la speranza, la forza di un paese che – dopo otto anni disgraziati di presidenza Bush e forse per la prima volta in maniera cosi strutturata e forte – si era alzato in piedi e aveva creduto di poter diventare un paese migliore. Quella parola d’ordine, cosi semplice, “yes we can” era diventata un monito, un impulso, un obiettivo, un traguardo.
Barack Obama non ha tradito nessuna di queste spinte, nonostante i suoi limiti. Nonostante la sua impossibilita – grazie anche ad un Congresso a maggioranza repubblicana che, per la prima volta nella storia, non ha MAI negoziato o appoggiato una proposta di legge – di portare a termine tutto ciò che aveva previsto e fortemente voluto.
Per chi vive qui, però, Barack Obama, ha significato un governo dignitoso, una guida visionaria e concreta, cultura, preparazione, spessore, umanità, gentilezza, diplomazia, rispetto – a volte persino esagerato – delle regole, protezione senza sbavature della Costituzione. Obama, in otto anni, ha toccato le vite, nelle loro singolarità, di cosi tanti americani – con la riforma sanitaria, il riconoscimento dei diritti LGBT, la difesa dei diritti delle donne, la protezione dell’ambiente – che non si può non comprendere lo sconforto di questa notte in cui, per l’ultima volta, lui sarà il presidente in carica.
E sarebbe stato triste comunque, per questo paese, questo commiato, ma l’elezione di DJT ha reso questa transizione un dolore palpabile, che non sembra lenirsi. Eppure, proprio nello sconforto e nell’angoscia di queste ore, c’è la luce stessa del risveglio, la luce di quel sole che sorge e di cui Obama stesso parlò all’indomani delle elezioni.
In queste tenebre è racchiusa la luce; in queste paure è racchiuso il coraggio, in questo sconforto è racchiusa la speranza. Perché da domani, il paese, quello che ha dato tre milioni di voti in piu a Hillary Clinton, è pronto alla resistenza non CONTRO Trump, ma a difesa della Costituzione e a difesa dei principi fondamentali che fanno di questo insieme di Stati, complesso e pieno di limiti, una democrazia illuminata.
Lavorare qui come giornalista, durante gli anni di Obama, è stato un privilegio. Ho nella testa e nel cuore migliaia di momenti indimenticabili e il senso galvanizzante di aver raccontato la storia come testimone oculare: il privilegio di una vita, appunto.
Non dimenticherò mai la fierezza e l’orgoglio professionale che ho sentito quando l’ho avuto a un metro di distanza e ne ho avvertito il carisma e l’umanità. E, nonostante le inevitabili e concrete preoccupazioni, stanotte, sento ancora una volta di essere nel posto giusto al momento giusto: per raccontare la storia.
Quella di un paese sul quale si abbatteranno, inevitabilmente le tenebre, ma che lotterà, e di questo non ho alcun dubbio, per ritrovare la sua luce. E questo, anche questo, sarà ancora merito di Barack Obama. Che, a questo paese, oltre a tutto il resto, ha lasciato l’insegnamento più alto: quello che essere cittadini è il ruolo più importante in una democrazia. Perché “we, the people, we can”.
Barack Obama Donald Trump Yes we can