Li conosco bene tutti e due, Emilio e il Sabotatore. Scrivono da dei, lo devo ammettere subito. Nessuno dei due ha un particolare buon senso, non credeteci quando il secondo fa il tipo con la testa a posto – ma hanno un gran talento.
Senza retorica, secchi secchi, tirano fuori il sapore di una vita, della vita, di ogni vita. Il romanzo che hanno scritto comincia nel 54, a Roma. E tu ti vedi una Roma anni 60 rinascere sotto gli occhi, con i suoi tempi, i suoi spazi, il suo essere antico villaggio buttato nel futuro – la Roma d’allora, traboccante di speranze, cinema, scrittori, pittori. Profumi, luci, disordine, sole, gioventù, bellezza. Vivere. Ecco l’effetto che fa la scrittura di Cavagnaro & Cavagnaro stesso, persino a una come me, femmina, più vecchia, milanese, senza famiglia, cresciuta da una tata: io leggendo mi identifico, mi commuovo con loro. Mi arrabbio e sorrido. Invidio la famiglia Garboli, mediaborghesuccia “quasi iconica”, fornita di cameriera e casa adeguata, prodiga di buone vacanze in luoghi poco snob ma sani. Cinque figli, grandi, più uno, Emilio, nato tanti anni dopo gli altri, diverso dagli altri. Beato te. Infanzia, ginnasio/liceo.
Una adolescenza di normale anormalità, resa assurda dalla divisione delle ragazze, nella sua mente, in angeli e puttane. Povero! Il romanzo procede come ogni memoir, scorrendo lungo la vita parallela di Emilio e del suo Sabotatore, quindi dentro a una struttura narrativa tutta peculiare, che alterna realtà e delirio, ironica disperazione, sensuale amore per luoghi e cose, e pessimi rapporti con le donne. La lettura che ne deriva è ricca di salti e sorprese, senza mai un filo di noia – sembra di vedere i colori, di Roma soprattutto, ma anche di Pieve di Cadore, della Versilia e dell’Adriatico spuntare di colpo dalle pagine, sembra di sentire gli odori del traffico in città, poi della macchia mediterranea coi pini, e un attimo dopo il profumo degli abeti severi contro la montagna bluastra nel crepuscolo.
Emilio cresce, diventa adulto, tenta di trasformarsi nel “fidanzato tutto casa, lavoro e calcetto” che dovrebbe essere, “senza mettere in dubbio, sia chiaro, nessuna delle certezze che l’educazione borghese aveva radicato in lui”, così è scritto nel libro. Ma non era possibile, come ha potuto anche solo provarci? Evidente che non gli era assolutamente possibile. “Emilio, sei un pirletta!” Quante volta l’avrà pensato, in silenzio, senza una smorfia, la sua educatissima cognata lombarda, attraversando la sua anima con lo sguardo. Emilio non era, non è uomo da Roma Nord e abitudini. Neanche da famiglia e fedeltà. Ha una incompletezza che gli fa cercare felicità impossibili in storie di sesso a catena. Macché Pascià Gaudente, come si definiva lui – solo un incapace di gioia, almeno così pensa il Sabotatore. Mi sa che Emilio ha amato solo la madre e i due figli. Forse anche i fratelli e le sorelle, un poco. E non era neanche portato al lavoro, povero Emilio, nonostante talento e intelligenza: è fisicamente incapace della disciplina necessaria per sopravvivere in un mondo di gerarchie, culto del successo, raccomandazioni, malignità e leccapiedismi premiati.
Sì, in definitiva, “Il Sabotatore” ci racconta una sua storia davvero unica e particolare – ma nella quale, chiunque abbia portato in seno, per tutta la vita, un sabotatore mai silente, è costretto a riconoscersi. Quindi, probabilmente tutti. Leggetelo, e confermatemi.
P.S. il Sabotatore aveva con fermezza sconsigliato a Emilio di scrivere un romanzo: “è l’ennesima cazzata, come fai a improvvisarti scrittore, alla tua età? Gli scrittori hanno un altro spessore, è gente che sa il fatto suo”. Ma Emilio niente, si è ribellato, e di romanzi ne ha scritti due. Non vedo l’ora di recensire il secondo.