La bambina era già a letto. Mia moglie si avvicinò alla porta e le sue curve arrotondate dalla maternità imminente risaltarono nella controluce della lampada a olio. Era bellissima. Il cane digrignava i denti senza ragione e anche le galline sembravano impazzite, gridavano e vorticavano nel pollaio senza sosta. Era una sera di fine luglio. Il cane si zittì all’improvviso. Si mise a guardare in giù, con le zampe che tremavano. Mi spaventai. Poi un violentissimo tremore mi fece mancare la terra sotto i piedi, caddi all’indietro. Mia moglie fu colpita dallo stipite della porta e svenne. La porticina del pollaio cedette e le galline si ritrovarono all’aperto. La casa crollava su se stessa, mi alzai e corsi dentro. La bambina piangeva, la feci uscire e trasportai mia moglie verso il terreno solido. Le parracine franarono e il campo si rovesciò verso valle. Io feci forza sui talloni e i palmi per arrestare la caduta, mi girai, chiusi le mani ad artiglio per risalire. La bambina singhiozzava accanto a mia moglie. All’improvviso il silenzio. La terra non tremava più. Scoprii che la paura è un sentimento posteriore. Il panico ti raggiunge dopo la catastrofe. Diedi uno schiaffetto a mia moglie, la scossi più violentemente e si riebbe. Nell’attimo in cui mi accorsi che la mia famiglia era salva, la casa distrutta, gli animali fuggiti, mi pisciai sotto.
Sentivo il getto correre caldo tra le gambe, fino ai piedi. E piansi.
La casa era un cumulo di macerie e polvere. Per la prima volta mi guardai intorno. Vedevo la parte dell’isola da Casamicciola a Monte Vico: il campanile della Chiesa del Purgatorio non c’era più, l’abitato di Perrone era distrutto, la Marina e le casette dei pescatori erano invase dal mare padrone. Aspettai l’alba, poi scesi a valle. Non era rimasta in piedi una sola casa, né una chiesa, né un qualsiasi edificio. Tempo dopo qualcuno mi disse che nella sola Casamicciola morirono più di millesettecento persone. Vuol dire che ci salvammo in pochi. Portai per tutta la vita la colpa del sopravvissuto. Cominciai a esercitare la memoria, perché è la sola cosa che resta quando l’emozione va via. Dopo tre giorni arrivò Umberto I, mi diede mille lire e una medaglia che ancora conservo. Come se essere sopravvissuto fosse un vanto. Mio figlio nacque pochi giorni dopo, il 5 agosto 1883, in uno degli ospedali da campo. Lo chiamai Umberto Liberatore perché mi sembrava giusto. Fu il primo dei nati dopo le tremila vittime. E io, per tutta la vita, mi sentii il primo dei non morti.
Casamicciola, 28 luglio 1883