Trenitalia sopprime i treni locali, quelli dei paria senza voce.
Ho preso una laurea e iniziato una specializzazione, viaggiando sui treni e odiandoli con furia: un test di Facebook secondo cui in una vita precedente ero Anna Karenina spiegherebbe tutto. Affrancarmene fu decisivo nella scelta di stabilirmi a Milano.
Ora mi ritrovo in tutt’altro luogo a incastrare lerci regionali dalla beffarda qualifica di “veloci”, narcotizzando il ricordo di quando il mondo era a portata di piedi o di poche fermate di metro.
Fa un freddo becco, nonostante la benedizione della grappa offerta dal barista, sgambetto sul breve tacco degli stivali troppo leggeri, la app avvisa che il prossimo partirà alle 21.38. Ma è traditrice, o forse non l’ho aggiornata. In una stazione dall’atmosfera bellica scopro di dover attendere fin oltre le 23. Fuori mi avvolge il vento, l’ho cercato per anni, ora pare mordere, è tramontana cattiva, e non vorrei proprio essere qui, ma nella foschia della mia città perduta.
È già coprifuoco, tutti i locali chiusi, pure quelli dei cinesi, anche nella via prediletta, un domino di vecchie botteghe ed empori monomarca, radi passanti dove di solito è un continuo scalpiccio, specie di giovani.
Pulsa una luce, Pizzeriaristorantebar, come in un cunicolo. Il gestore accoglie di malagrazia la mia richiesta di un caffè, confidava almeno in una margherita. Il ristorante è al piano di sopra, lo troverò cercando il bagno.
Sotto, con me, solo una coppia indecifrabile: beve vino rosso. Un uomo sgualcito sui sessanta ─ se li porta giusti ─, a fianco una cartella fuori tempo color cuoio chiaro, e una ventenne slanciata, molto pallida, con una catena Tiffany o giù di lì, dal ciondolo a cuore. Escono a fumare, lui le presta la sciarpa.
La ragazza parla e parla, a voce alta, appena stridula, dall’accento fiorentino. È allarmata per il ritorno all’università. Ma inanella frasi divertite, che non percepisco. Lui ascolta, palmi al mento, postura sul chi vive. Possiedono un’asimmetria e insieme una grazia che attira, inducendo a congetturare.
Padre e figlia lo escludo presto, professore marpione e allieva non mi quadra: lui reca, mal dissimulata, la mestizia degli sconfitti. Concludo per uno di quegli incontri strampalati fra pendolari o trasfertisti, con il fragile cemento di consuetudine e nostalgia.
Mi perdo nel mio fardello, dimenticandoli; prima di consegnarmi al mio destino ferroviario, però, mi trapassa lo squillo toscano, ilare e disincantato: «Ma che vuoi, stiamo a vedere! Ci siamo conosciuti in un reparto psichiatrico e…».
Li circondo con uno sguardo di congedo, pensando che la studentessa è saggia.
E la vita imprevedibile, crudele e misericordiosa.
Infine, maledico un po’ meno Trenitalia.