Il Vate

Arrampicato, come una polena inutile, alla prua del torpediniere Puglia, il Vate scrutava l’orizzonte. L’altra costa non era Dalmazia, era Italia, e la nave non fendeva le onde, ma affondava in un giardino melmoso di pioggia recente. Si allungò oltre la murata e guardò giù. Niente, a parte gli alberi. Lo stesso niente che sentiva tutti i giorni più vicino. Settantacinque anni. Lui, che avrebbe voluto vedersi caro al cielo, morto giovane, eroe, progettista della fine. E invece era soltanto un vecchio. Con una pazza che suonava il piano dentro casa. Una pazza con cui non parlava. Una pazza cui scriveva lettere ogni giorno.
Ardisco non ordisco. Memento audere semper. Eja, eja. Alalà! Qui contra nos. Me ne frego. Tutte parole senza senso, ormai. Parole vuote. Eravamo giovani, eravamo eroi, eravamo nei progetti della morte, pensò. Lo siamo ancora. Dalle soglie del bosco gli giunse l’eco di una voce. Non una voce umana, non parole. Un crepitio. Restò in silenzio. Piove. Sulle tamerici, i pini, i mirti, le ginestre. Piove. Guardò il lago. L’acqua scura increspata dall’Ora. Si sentì un cane. Il cane del proprio nulla. Rientrò in casa. Si sedette e morì.

Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863– Gardone Riviera, 1 marzo 1938)

P.S. La “pazza” cui si accenna nel testo è Luisa Baccara, che visse al Vittoriale dal 1921 fino al giorno della morte del poeta. D’annunzio le scrisse quasi duemila lettere.

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