Il violino muto

Nella casa dove vivo, bene, è presente questo violino. Tra tanti oggetti di arte moderna sembra fuori posto. Invece no, è messo in un posto importante, in alto e da lì osserva i vecchi e i nuovi abitanti. Sta lì anche per ricordare chi non c’è più, chi lo ha amato e suonato anche in un momento in cui la vita finì. Il violino ha il suono profondo che va dritto nel cuore e conserva tutto ciò che ha dato. Ora si fa solo guardare. Incute rispetto, un po’ malinconico, malconcio ma dignitoso con le corde sempre tese. Non emette più suoni, l’archetto non c’è più. Se potesse urlerebbe perché ha visto, perché lui c’era.

Ha fatto parte di tutto quello che poteva essere compreso in 20 chili di qualunque cosa che ogni abitante di Pola poteva portar con sé, e il suo padrone aveva scelto lui, una sedia, dei libri e tanti fogli scritti. Si chiamava Livio Zach prima che arrivasse qui e qui aggiunse qualche lettera al suo cognome italianizzandolo e diventò Zacchi Livio, cittadino italiano esattamente come italiano era quando era nato e vissuto a Pola con tutta la sua famiglia. Quando l’ho conosciuto non abbiamo mai parlato della sua vita passata, non voleva parlarne per il dolore del ricordo e per la vergogna di dover ammettere di aver subito l’inferno per mano di quelli che erano amici sino al giorno prima, sino a poche ore prima.

Quando gli italiani dello Stivale il 25 aprile del 1945 scesero euforici per strada per festeggiare la Liberazione, in quell’altra Italia iniziò il martirio per mano dei partigiani di Tito, quelli con la “stella rossa”. A questi era stato dato un compito preciso: “annientateli!”. La prima e la terza ondata fu distruttiva e solo più avanti si permise che quegli italiani scegliessero di lasciare la loro terra, le loro case, tutto, salvo 20 chili di qualcosa. Gli assassini si fermarono a febbraio del 1947. Ma in questo tempo non uccisero e basta l’avversario, il nemico, uccisero chiunque perché pregni di fanatismo, accecati da miraggi di ideologie malate, come altre lo erano state nel tempo.

Ho visitato i Sacrari di El Alamein, di tutte le nazioni, ho partecipato all’inaugurazione del Sacrario dei Caduti d’oltre mare di Bari, mi fermo ai cimiteri di soldati sparsi per l’Italia, da cristiano e da soldato m’inchino alla morte per una bandiera, comprendo il valore della loro morte in guerra.

I partigiani di Tito, quelli della “stella rossa” non uccisero in battaglia, essi ebbero l’ordine e la libertà di uccidere ogni italiano in qualunque luogo e in qualunque modo. Non oso nemmeno immaginare chi fu il primo che trovandosi in zona carsica si inventò il più crudele ed efferato sistema di omicidio. “Uccidevano per coppie e poi per file. Legati uno all’altro con fili di ferro li facevano arrivare sul ciglio di un inghiottitoio (così chiamavano in gergo la foiba), sparavano a bruciapelo il primo della fila che cadendo, spesso ancora morente, trascinava tutti gli altri. Poi un’altra fila.”

A quelli che sopravvissero fu permesso di partire, con i treni e con le navi. Una rabberciata organizzazione aveva previsto qualche decina di “punti di accoglienza” dove “gli esuli” avrebbero trovato posto, non una sistemazione decorosa, ma un posto per fermarsi e basta. Nel tragitto in treno, alle stazioni chiusero le fontanelle d’acqua, per evitare che si dissetassero alle fermate, a Bologna vietarono la sosta perché quei cittadini si rifiutarono di offrire da mangiare (la grassa Bologna) a quella specie di fascisti: non italiani, fascisti, così li giudicavano. Mi rallegro un poco a pensare che quelle decine di esuli che arrivarono nella mia Puglia, a Brindisi trovarono conforto e sistemazione decorosa nell’allora Collegio Navale.

Si considerarono più fortunati tutti quelli che per convenienza, fatalità, magari inconsapevoli presero il mare per terre lontane sino all’Australia e l’America, certamente meglio che l’Italia di quel momento.

Tempo ne è passato, e per i giovani, mi auguro, non invano.

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