Il bosco di lacrime

Spoglio la violoncella dalla custodia, allungo il puntale, preparo l’arco. Spalmo la pece sul crine, serve.
Sono le lacrime degli alberi, raccontava la mia insegnante quando ero piccola. E io, affascinata da questa profonda fantasia, immaginavo di suonare con le lacrime di un intero bosco.
Preparo il leggio. Metto gli spartiti e sento l’intonazione delle corde. Tutto perfetto. Osservo la carta e respiro. Il mio sguardo ritorna indietro nel tempo. Sfuoca e cerca di ricordare come il cuore voleva suonare.
Non come gli altri dicono! Apro la grata dei limiti, metto l’arco sulla corda e mi trasporto. Molto lontano. Non mi serve un bicchiere di vino, né il complimento di un’amica. Solo l’apertura di sentire la solitudine dell’armonia, attraversando un bosco di lacrime, appena stese sul mio arco. Forse mi fa male la spalla, ma non sento. Sono uscita da me. Mi sono scomposta. Non servono ossa, né sangue, né cellule. Al diavolo i neuroni. Solo orecchie, le orecchie del cuore. Immensa cecità nello sguardo delle certezze. Alcune di loro non le imparo mai, le suono. Mi perdo. Tra poco arriva la penultima battuta.
Rallentando, diminuendo, piano, pianissimo. Sfumo alla punta dell’arco, dove ho imparato a non chiudere mai. Metto giù le spalle. Respiro. Oltre la grata di ogni restrizione.
Non mi sono contenuta.
Grazie, violoncella mia.
E l’abbraccio, vibrante com’è ancora.

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