Inclusione vs. esclusione è una relazione ‘coatta’ perché un unico gesto, come il tracciare i confini o lo statuire una norma, produce immediatamente una coppia, insiders e outsiders, chi è al di là e chi al di qua della linea tracciata. Sheila Benhabib a riguardo afferma che “ogni atto di inclusione genera le proprie condizioni di esclusione”. In fondo includere può costituire un privilegio, come oggi appare chiaro per la problematica estensione della cittadinanza ai migranti. Definire è distinguere, dunque istituire gerarchie. L’animale culturale uomo impone forme, vive di convenzioni, decidendo ciò che deve essere dentro e ciò che deve essere fuori del confine tracciato come attesta la nostra comune prassi giuridica scandita da norme “nelle forme e nei limiti” della Costituzione (art. 1). All’origine del pensiero storicistico Giambattista Vico, l’autore della Scienza Nuova, definisce la natura come ingens sylva dalla quale occorre separarsi. La civitas include escludendo l’informe, ovvero ciò che da una prospettiva storica e culturale è ritenuto informe. Nel 1920 viene pubblicato in Germania un volume dal titolo Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Leben (L’autorizzazione all’annientamento della vita indegna di vivere) i cui autori, il penalista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche, teorizzano senza esitazione la necessità dell’eutanasia per i disabili fisici e mentali, gli “anormali”. Definire la dignità e tracciarne i confini – operazione che oggi sembra quasi una ineludibile regola del pensiero – comporta il grave rischio e la grande responsabilità di definirne immediatamente il contrario, l’indegnità da escludere. Invece, la filosofia rinascimentale con Pico della Mirandola ha affrontato il tema della dignità sfuggendo a questo rischio e definendola – con sapienza e preveggenza – come “il possibile” quale cifra dell’umano. Una definizione che invece di chiudere apre. Certo, gli orizzonti di tale apertura restano tutti nelle nostre mani.