Infanzia del male

 

Quello che quando si faceva tutti giù per terra puntava i piedi e resisteva alle braccia che lo spingevano verso il basso, quello che quando si faceva il gioco del silenzio era l’ultimo a parlare, quello che a mosca cieca rovesciava la testa e di nascosto guardava sotto la benda, quello che quando incominciavamo a interessarci alle ragazze ne aveva già vista una tutta nuda e non ce lo diceva per ridere delle nostre fantasie.

 

Non era un mio amico, non era amico di nessuno, ma tutti sembravano averne rispetto, se si può chiamare rispetto l’indifferenza che nasce dalla cautela. Era intelligente. Sapevamo che nella vita avrebbe potuto scegliere di fare qualunque cosa, anche non fare niente. L’avrebbe fatto bene lo stesso, il niente più niente di tutti gli altri niente.

 

Nessuno di noi aveva il coraggio di confessare quel che pensava, e cioè che quel ragazzo forse un giorno avrebbe scelto di fare il male ─ anche questo lo avrebbe fatto al meglio ─ e ciascuno pregava, qualora la previsione si fosse avverata, di non ritrovarselo sul proprio cammino, di poter svegliarsi una mattina e leggere sul giornale la cronaca di chissà quale delitto, di chissà quale misfatto, e di poter esclamare «chi lo avrebbe mai detto?» abbandonandosi poi a un colpevole sollievo.

 

Il male esiste. Esiste perché c’è chi sceglie di farlo, deliberatamente. Anche solo per vedere l’effetto che fa.

 

 

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