Ieri sera c’era Inghilterra Belgio. Si giocavano il primato del girone. Una partita abbastanza noiosa e con l’Inghilterra di sempre. Il primo Mondiale della mia memoria fu quello che si giocò in Svezia. La finale, il 29 giugno del 1958, diede la prima coppa al Brasile. Un diciassettenne di nome Edson Arantes do Nascimento rifilò un paio di gol alla Svezia di Liedholm, Hamrin e Skoglund; Pelè ci fece vedere cose mai viste prima.
Per le partite andavamo tutti al Caffè di via XX settembre, a Foligno. Nel palazzo dei ferrovieri di piazza San Giacomo le antenne avrebbero tardato ad arrivare. Il rito settimanale di ‘Lascia o raddoppia?’ si celebrava invece nel cinema della parrocchia. Forse con la spinta della Curia qui la tecnologia aveva fatto un passo avanti e da uno strano tubo uscivano le immagini per quello che potremmo definire il maxi schermo anni Cinquanta. L’ingresso costava 10 lire, ma poi padre Amerigo passava con la busta delle caramelle.
Per quello successivo, mi trovai sul posto. Erano i mondiali del 1966 (su quelli del Cile è meglio stendere il canonico velo pietoso). Era luglio e io e Marcello venivamo da due prove durissime: gli esami di analisi matematica I e di geometria, che, al termine di tre mesi di clausura, avevamo superato con successo. Si decise per Londra. All’epoca non c’era il clima dell’Erasmus e chi se lo poteva permettere magari andava al mare sulla costa romagnola; altrimenti c’erano i parenti al paese.
Eravamo nel pieno degli anni Sessanta e la capitale dei giovani era Londra: i Beatles, Mary Quant e la minigonna; e Carnaby Street, non quella di oggi. Ma mi piace pensare che c’erano gli stimoli di una latente identità europea. Il viaggio fu terribile, traghetto compreso. In vista delle scogliere di Dover, ci imbattemmo in una tempesta che mi fece capire sulla mia pelle quello che avevo letto sui libri a proposito delle avverse condizioni climatiche che avevano messo in dubbio, all’inizio di giugno del 1944, lo sbarco degli Alleati in Normandia. L’approdo a Victoria Station fu una liberazione, ma ci vollero 24 ore di sonno filato e la comparsa di un pallido sole per far tramontare l’idea di un precipitoso rientro a casa.
Con Marcello e Tino Testa, casa la trovammo dalle parti di South Kensington. Una delle tante case a schiera destinate alle famiglie degli operai. Noi avevamo un grande stanzone a mansarda fornito di tutto, anche se di tanto in tanto bisognava correre al piano di sotto per alimentare di monetine uno strano contatore di elettricità.
La disfatta degli azzurri e di Edmondo Fabbri ad opera del famoso dentista nord-coreano cadde il 19 luglio. Tutte le mattine i ragazzini del quartiere ci apostrofavano con significativi sghignazzi e ci scortavano fino alla stazione della metropolitana al coro di “Corea, Corea”. La tappa obbligata del nostro girovagare giornaliero era Piccadilly Circus. Il turismo non era certo di massa e chi c’era prima o poi finiva per far visita a Cupido. Lì si faceva amicizia e si dava spazio al nostro desiderio di conoscere e di confrontarci.
Faceva freddo, e spesso la sera ci si trovava in un locale di Oxford Street a ingresso gratuito da dove Radio Luxembourg mandava in onda concerti di gruppi rock alla presenza di teenagers scatenati. Tutte le radio trasmettevano in continuazione musiche dei Beatles che avevano appena lanciato Eleanor Rigby. Un sabato, a Trafalgar Square partecipammo a una manifestazione pacifista; c’era la guerra del Vietnam e quella era la terra di Bertrand Russell, in quei giorni ancora tra noi. Ci mischiammo con alcuni giovani della New Left di idee radicali e comuniste (qualcuno di loro aveva in tasca il Morning Star) merce rara da quelle parti, quasi oggetti da museo.
La finale dei Mondiali ci fu il 30 luglio. Andare allo stadio nemmeno a parlarne. Uno dei nostri amici del Piccadilly Circus ci invitò nel suo B&B, dove c’era il televisore, non senza averci fatto prima mille raccomandazioni a proposito della proprietaria, un personaggio uscito da un romanzo di Agata Christie. Prima del calcio di inizio, appena partirono le prime note di Good save the Queen, la sorella di miss Marple scattò in piedi e intonò il canto. Un’occhiataccia di uno dei presenti mi obbligò ad alzarmi; tuttavia, giuro, non cantai né mi misi la mano sul cuore. La partita finì ai supplementari e il titolo andò all’Inghilterra.
Ci fu il giallo del secondo gol dei Leoni. Non esistevano né moviole, né replay, ma tutti noi avemmo la netta sensazione che la palla di Geoff Hurst non avesse affatto superato la linea di porta prima di tornare in campo. L’arbitro svizzero e il suo collaboratore sovietico dissero il contrario.Quel gol fantasma fu una sorte di maledizione per gli Inglesi. Da allora, l’Inghilterra non ha più vinto nulla.
Pensai che fosse stato un destino beffardo a mettere di fronte sul suolo londinese, inglesi e tedeschi. Era passato un ventennio dalla fine della guerra. Le macerie provocate dagli U2 erano state completamente rimosse; ma le ferite restavano con tutto il loro carico di dolore. Certo quella era un’altra Germania, anche se si chiamava Repubblica Federale Tedesca, per distinguerla da quella comunista, e Berlino era ancora sotto la ‘protezione’ della Francia, Germania e America. Stiamo parlando di sport, ma penso che il popolo inglese mai e poi mai avrebbe potuto tollerare una sconfitta in casa propria ad opera dei tedeschi.
Campionati mondiali di calcio Gol fantasma Londra anni 60