Insonnia

Mike aveva sempre vissuto a Briarcliff Manor, in Westchester, e non sopportava la sonnolenta vita rurale, le facce compunte che si accalcavano in chiesa la domenica, e l’inquietante Maniero che dominava il villaggio. Costruito come una fortezza a inizio Novecento per malati di tubercolosi, nel 1962 era stato rilevato dalla chiesa cattolica, che l’aveva trasformato in manicomio. Erano tante le storie horror sulla gestione di monsignori e suore che, dieci anni dopo, il manicomio fu chiuso e abbandonato. La leggenda del Maniero maledetto fu poi immortalata da una serie TV, l’“American Horror Story”. Mike pensava ci fosse un nesso recondito fra gli abitanti di Briarcliff, tutti cristiani bianchi, e la follia.
Finito il liceo, il giovane miscredente lasciò la casa dei genitori per il college nella City. Lo ospitava un amico di studi in un appartamento di Manhattan, tra Bleecker Street e Broadway, vicino all’università. Mike adorava il cambiamento di scena. New York City gli dava alla testa. Non riusciva neppure a dormire la notte, tanto si sentiva eccitato e libero.
L’amico aveva piazzato trappole per scarafaggi in tutte le stanze, e aveva spiegato a Mike di non lasciare cibo e briciole in giro o piatti sporchi nel lavello. Le blatte erano grosse e numerose. Di notte Mike sentiva ticchettare le zampette nere lungo le pareti, e non dormiva. Sentiva i rumori che salivano dall’incrocio con Broadway, le sirene della polizia, quelle delle ambulanze, che sfrecciavano a ogni ora della notte. Prima dell’alba, quando riusciva a prender sonno, lo svegliava il camion della nettezza urbana che spazzava la strada sotto la sua finestra. L’amico lo tranquillizzava: “Questa è la città che non dorme mai! Quando ti sarai abituato ai rumori, sarai un vero newyorkese”.
Mike era impegnato a studiare per un esame quando suo padre lo chiamò al telefono: “Vieni subito. Tua madre ha battuto la testa e sta dando i numeri”. I genitori di Mike avevano divorziato cinque anni prima: lui si era rifatto una famiglia, lei viveva sola nella vecchia casa. Mike prese subito il treno a Grand Central. Emma, la madre, lo ricevette sorridente, col pranzo già pronto in tavola. “Mamma, fammi vedere” chiese il figlio, controllando ogni centimetro della sua testa. “Non è nulla” si scherniva lei. “Perché allora il babbo mi ha chiamato? Ti senti male?”
“Lo sapevo che non dovevo raccontargli nulla. Tuo padre dice sempre che finirò in manicomio. Ho avuto un capogiro, ho battuto la testa contro la vasca da bagno e mi sono spaventata. Ma è stata anche un’esperienza mistica: ho visto Gesù che allargava le braccia verso di me”. “Mamma, dobbiamo fare una TAC per sicurezza”.
La portò in ospedale e tornò il giorno dopo a ritirare gli esami. Il radiologo aveva rilevato un’atrofia cerebrale, e gli consigliò un esame neurologico. Emma reagì male: “Non ci vengo dal medico dei matti!” Dopo molte liti, Mike riuscì a portarla dal neurologo, un vecchio coi baffi e gli occhi furbi, che le fece disegnare un orologio con le lancette a indicare ore diverse. Emma sbagliò il disegno e le ore. Quando il neurologo, scherzando, le chiese che giorno era, lei rispose indispettita: “Che importa se non so il numero!” Non ricordava nemmeno l’anno, la stagione o il mese. Il neurologo fece l’occhiolino al figlio, per fargli intendere di aver sgamato la demenza di Emma. “Cosa c’è da ammiccare!” pensava Mike sdegnato. “È una tragedia!” Il dottore gli porse il foglio su cui erano elencati gli esami che la madre doveva ancora fare per entrare in un programma di cura sperimentale che rallentava il decorso della malattia.
Emma uscì dall’ambulatorio furiosa. “Mi ha insultata! Vuole farmi passare per scema!” Mike tentò di prenotare l’elettroencefalogramma, ma lei fu irremovibile. Ci vollero due anni di suppliche e minacce per convincerla a farsi visitare, e l’insonnia di Mike diventò cronica. Tornava ogni tanto in città per dare un esame, ma ora non dormiva più nemmeno in campagna. Quando portò al neurologo tutti gli esami, questi lo guardò incredulo: “Hai sprecato due anni! Tua madre si sarà aggravata ormai”. Sì, Emma non sapeva più usare gli elettrodomestici, Mike doveva farle il bucato. Ora lei cucinava le bistecche gettandole nella pentola d’acqua calda come fossero spaghetti. Apriva le manopole del gas senza accendere gli ugelli, e Mike sudava freddo al pensiero che potesse far scoppiare la casa e morire tra le fiamme. Fece venire un tecnico a cambiare il vecchio fornello della cucina con valvole di sicurezza. Poi fu la volta del microonde, in cui Emma infilava pentole d’acciaio.
L’ultima visita fu con un altro neurologo, responsabile del programma sperimentale. Lo studio era vicino al manicomio, e Mike studiò una deviazione tortuosa per evitare che Emma vedesse il Maniero maledetto. Per convincerla, le disse che era una visita ortopedica. Si accordò col dottore, un bell’uomo alto e serio, che la ricevette e le fece credere di interessarsi al suo mal di schiena. Quando conversava con lui, Emma non trovava le parole, gesticolava, piena di paura e vergogna, e pronunciava frasi senza senso. Mike vedeva i suoi sforzi sovrumani per sembrare normale, e tratteneva a stento le lacrime. La guardava regredire e soffrire, terrorizzata al pensiero di essere pazza. Vedeva la sua intelligenza spegnersi, ed era un lungo, straziante funerale.
Ricevuti i cerotti della cura sperimentale, Mike rimase a Briarcliff per applicarli a orari distinti lungo la schiena e sul petto della madre. Chiamò il padre per insegnargli come fare e dargli il cambio, ma gli bastò sentirlo evasivo al telefono per capire che non poteva contare su di lui. Non era mai stato presente per la moglie, nemmeno quando erano sposati. Mike rimase a fare da badante alla madre finché ebbe un richiamo dall’università, perché aveva saltato lezioni ed esami. Si decise allora a cercare una badante. Trovò una brava infermiera che accudiva i malati in ospedale. L’infermiera non durò una settimana. Emma non la voleva in casa, e le urlava di andarsene. Prese poi una donna di colore, più robusta, ma Emma la picchiò e la spinse fuori dal portone.
Disperato, Mike tornò allo studio vicino al Maniero e disse al neurologo che la madre era diventata incontrollabile. Usciva di casa senza poi trovare la strada del ritorno. Mike stava impazzendo dietro a lei. Il neurologo interruppe la cura. Era ormai troppo tardi per fermare la degenerazione. Prescrisse dei forti sedativi, e gli disse di togliere qualsiasi altra medicina sua madre avesse in casa.
Mike, con gli occhi pesti per l’insonnia, tirò fuori dai cassetti della madre le scatole di medicine. Notò una confezione di sonniferi. Da mesi aveva pensato di comprarli per sé, perché era sfinito dalle notti in bianco a immaginare tragedie. Tirò fuori il bugiardino dalla scatola di benzodiazepine e lesse: l’uso prolungato dei sonniferi poteva indurre demenza. Li buttò nella pattumiera. Quando Emma non li trovò, si mise le mani nei capelli. Vergognandosi di non essersi mai accorto che la madre soffriva d’insonnia, Mike le chiese: “Da quanto tempo prendevi i sonniferi?” “Da sempre! Sempre!”
Premuroso, le spiegò che le medicine nuove non erano compatibili con quelle vecchie, e maledisse il dottore di famiglia che gliele aveva prescritte per decenni. Rimase a casa della madre un’altra settimana, per accertarsi che la nuova cura facesse effetto. Emma si calmò di giorno, ma la notte si svegliava urlando. Mike correva in camera sua, vedeva la madre con gli occhi stravolti che gridava: “Incubi! Mostri!” Emma si era vantata in passato di non sognare mai. Forse i sonniferi disturbavano il sonno REM, e ora gli incubi repressi si scatenavano.
Mike tornò dal neurologo, gli parlò dei sonniferi della madre e della propria insonnia. Il neurologo scrisse una ricetta per la madre e poi chiese se voleva anche lui dei sonniferi. “Per diventare demente anch’io?” rispose.
“Mike, hai le pupille dilatate come un drogato. Se soffri di midriasi, c’è rischio di ictus. Non puoi restare sano se non dormi. Il tuo sistema immunitario ne sarà compromesso. La privazione del sonno può portare ipertensione e tumori”.
Mike andò a fare le analisi e scoprì che soffriva di ipertensione. Comprò integratori naturali per il sonno e bevve tè di camomilla, ma senza alcun effetto. Quando la madre si calmò, portò a casa una nuova badante, una messicana che a mala pena parlava inglese. L’aveva trovata in un’agenzia e l’aveva scelta perché già esperta di malati d’Alzheimer. Sospirando di sollievo, tornò in città e agli studi. Chiamava la badante ogni sera. Emma la prima volta andò al telefono, ma non sapeva che dire, borbottava. Mike sospettò che la madre non lo riconoscesse più. Nel weekend tornò a trovarla. Era seduta in salotto sulla sedia a rotelle che le aveva comprato. La salutò: “Ciao, mamma, come stai?” Lei non lo chiamò per nome, ma guaì come un cucciolo, e il suo viso esplose in un sorriso di gioia. Mike si sentì stringere il cuore, quasi una fitta d’angina. Emma era felice perché lui non l’aveva abbandonata.
Il padre trovò una casa di riposo per lei. Mike non voleva sconvolgerle di nuovo la vita, Emma si trovava bene con la badante messicana. Lui stesso era meno stressato e ora dormiva quattro ore a notte. Una mattina si accorse di avere perdite di sangue dal retto. Pensò fosse per l’alternarsi di stitichezza e diarrea di cui soffriva da un po’. Si fece prescrivere una colonscopia.
Arrivò in ospedale la mattina presto, gli diedero un lettino in una camerata di pazienti angosciati in attesa di essere operati. Mike non aveva paura per sé. Tutta la paura e l’angoscia erano per sua madre. Non potendo far nulla per lei quel giorno, si stese sul letto e, nonostante il chiasso circostante, si addormentò profondamente. Vennero a svegliarlo due infermieri per portarlo a fare l’esame. La colonscopia rivelò un brutto tumore all’intestino, e Mike non ebbe più notti insonni perché cos’altro di peggio gli poteva capitare?

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