Un romanzo atipico quello di Silvio Danese: un noir, il diario pubblico di due anime in pena, un manuale di psicologia e psichiatria? Un po’ di tutto questo e di più considerando le 527 pagine, la scrittura fluviale, a volte ricca a volte sincopata, spesso monologo furioso o dialogo quasi incomprensibile tra la “Sposa” ingabbiata e il giornalista che vuole raccogliere i dettagli della sua storia per farne un libro. Di lui, dello scrittore, si sa poco, visto che il suo registratore, la sua cuffia e il pulsante rosso “play”, la fanno da padrone. Con quegli aggeggi riprende la voce di Stefania, piazzata davanti a lui nell’aula grigia del carcere dove è rinchiusa. La riascolta in solitudine quella voce, mille e mille volte, ne analizza le sfumature, ascolta la propria spesso irriconoscibile a se stesso, goffa, un bisbiglio incomprensibile, percepisce tutti gli altri rumori: la sedia che raschia il pavimento, lei che si muove irrequieta per la stanza.
Stefania è una bella donna, molto più alta della media, una cascata di capelli scuri, un corpo che si indovina morbido sotto la divisa da detenuta, non più giovane, sulla cinquantina. Lo scrittore non vorrebbe ma spesso ne subisce il fascino, soffre con lei, si appassiona, trema dei suoi tremori, e con lei rivive l’orribile vicenda di cui è stata vittima e alla fine carnefice. Stefania è una delle migliaia di donne che subiscono violenza fisica e psichica, tra le mura della sua casa borghese: il marito, Dino, uomo di bell’aspetto e dai modi urbani (con gli altri) la tiranneggia da venti anni, la ritiene un oggetto da strapazzare a proprio piacimento, non accetta il minimo segno di indipendenza, solo sottomissione ai propri capricci. Non è stato sempre così – racconta Stefania, gli occhi vitrei a ripercorrere la storia, all’inizio era innamorato anche lui e con i bambini poi diventati grandi, è sempre stato amorevole. I personaggi sono pochi, sfumati e solo raccontati: la figlia Laura, l’unica che sembra credere in un futuro diverso; il figlio più giovane e fragile Antonio; l’amica Anna che ha tentato invano di porre fine a quella insensata violenza e alla ancor più insensata remissività di lei. Sullo sfondo o sul fondo c’è sempre lui, il marito-padrone Dino, grigio e funereo come le pareti del carcere. Il legame tra la detenuta e lo scrittore si fa man mano più forte, quasi un rapporto paziente-terapeuta, anche se a volte invertito: è Stefania a dipendere da lui o lui a temere la fine di quel dialogo?
Silvio Danese, critico cinematografico e giornalista, firma un romanzo (il terzo) complesso nella lettura e nella scrittura, che però ci tiene allacciati e stretti, quasi in simbiosi, ai due protagonisti. Non si vorrebbe staccare, spegnere quel registratore, ma continuare ad ascoltare il rumore della vita.
Intervista alla sposa – di Silvio Danese – La Nave di Teseo -2020