Non avevo ancora trent’anni. Tornavo nella grande casa di campagna, era domenica e mancava un qualche medicinale e i fondamentali, per me, tappi per le orecchie. Uno sguardo al settimanale locale ci avvertì che l’unica farmacia aperta era una delle più impervie del capoluogo, oltre il fiume.
Sbuffò, sbuffò, ma alla fine riuscii a convincerlo, forse con la prospettiva di una notte di tormenti. Salimmo sulla Mercedes station wagon che era un antidoto alla sua lombalgia e alla cattiva guida. Litigammo durante il tragitto? Forse.
Il negozio era pieno e occorse tutta la mia blandizie per placarlo. Gli avrò accartocciato le orecchie? Chissà… Notai che la farmacia era sorprendentemente fornita, così cosmetici e integratori si accumulavano nelle braccia conserte. Al suo “Ma basta!”, venivano opposte nuove tenerezze e la convinzione che gli stessi prodotti costassero meno che a Milano.
Arrivò il turno, comprammo, lui saldò sfoderando i bigliettoni da cliente. Si levò, sommessa ma distinguibile, la voce acida di una comare, stile Bocca di Rosa: “Questi vecchi che sparano le ultime cartucce con le ragazze, quanto devono sganciare”.
Lui, sorprendendomi, con l’antico spirito, mi cinse la vita (perché non notai come erano belle le sue mani, perché?) e replicò in dialetto: <<Madama, forse non sono ancora le ultime, e vale pagare quando la merce è buona. E di fatta così bene, ce n’è poca in giro, mi creda>>. Uscimmo impettiti per poi scioglierci in uno scroscio di risa.
Papà e io.