L’evento culturale della scorsa settimana? Il Salone del Libro di Torino, of course.
Non ci andavo da anni. Vidi il primo, quello del lontano 1987: andammo insieme, la mia mamma ed io; si respirava aria di avvenimento grandioso anche se l’atmosfera non era pomposa (probabilmente perché noi torinesi rimaniamo sempre coi piedi per terra, nel bene e nel male).
In base ai numeri, quello di quest’anno non è stato un Salone della crisi: biglietti alla mano, rispetto al 2011 appare un incremento del quattro e rotti per cento. I numeri… una bella invenzione, anche utile nel suo genere, e su di loro si son scritti tanti libri, uno per tutti: La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano, che si è rivelato essere il grande assente di questo Salone – assente come autore di un nuovo libro, perché come ospite invece c’era eccome. Tornando alle cifre, sembrerebbe che di libri ultimamente se ne vendano meno di sempre: da Natale le vendite sono andate calando a rotta di collo. Personalmente mi lascio alle spalle la matematica e i conti da economo di collegio vescovile: se c’è stata più gente dello scorso anno tanto meglio, se di libri se ne vendono meno, tanto peggio.
Alla Fiera ci sono andata perché, dopo una lunga latitanza, ho sentito il bisogno di ritornare sia lì che nella mia città natale, un semplice richiamo dell’anima.
Sono arrivata al Lingotto venerdì scorso all’ora del tè e la zona non era molto popolata, questo a onor di cronaca va detto, cifre o non cifre; del Paese ospite, la Romania, me ne sono interessata poco, non ho trovato un grande appeal nell’approfondire la nascita della Massoneria in quello Stato: non mi incuriosisce nel mio, figuriamoci negli altri. Guardandomi intorno, sulle prime mi son sentita delusa, ricordavo Saloni più allegri e vitali, poi mi è venuto in mente il motivo per cui ero lì: i libri e ad essi mi sono dedicata, completamente.
Glissati gli stand delle grandi case editrici, che tra l’altro non applicavano lo sconto fiera (e non ho proprio capito il perché ), mi sono diretta verso mondi alternativi alla grandi lobby editoriali. Camminando, l’occhio mi è caduto su un volume con una sgargiante copertina arancione, titolo: Andavo a scuola nel Terzo Reich, ricordi di scrittori tedeschi, editrice Il Melangolo; l’ho comprato, spinta dalla curiosità per i giorni di scuola di gente come Heinrich Böll, Joachim Fest, Barbara König, Carola Stern e altri che non conosco. Più avanti ho visto un altro libro con la copertina arancione, Hermès, l’avventura del lusso di Federico Rocca, che promette la storia di una famiglia e di una griffe senza uguali, nonché di uno stile senza tempo – e ovviamente non si può rinunciare a leggerlo – e di già che c’ero ho preso anche Il mondo di Coco Chanel di Karen Karbo, questo l’ho acquistato perché le lezioni di stile della donna più elegante di sempre possono essere utili, non si sa mai, e poi la casa editrice Landau applicava lo sconto fiera e dunque dal mio punto di vista andava premiata.
Nottetempo è una casa editrice che mi ha sempre attratta, a cominciare dal nome, che appare come il preludio alla promessa di chissà quali meravigliose storie, e dunque ho fatto una puntatina nello stand di queste edizioni romane portandomi a casa Il guscio della tartaruga di Silvia Ronchey – un affascinante percorso nella genialità umana – e Amore è il mese più crudele di Barbara Alberti. Perché questo libro? Perché mi ha colpita il titolo, tutto qui. Giulio Perrone editore pubblica edizioni molto ben curate, anche proprio nel senso dell’oggetto libro, cosa da non trascurare per i bibliofili come me, poi presentava volumi con sconti interessanti quindi non mi son lasciata sfuggire il Diario Italiano di Enzo Siciliano, che non ha bisogno di presentazioni.
Verso la fine del percorso ho “incontrato” una casa editrice che amo moltissimo in quanto è legata al mio primo periodo universitario: la Viglongo; avrei dovuto scriverci la tesi di laurea, poi il destino ha invertito le carte, ma ho un bellissimo ricordo della signora Viglongo e di sua figlia, che trovo spesso durante le manifestazioni librarie; quando la incontro mi appare sempre più come una figura uscita dalle pagine di una poesia di Gozzano; non so spiegarne il motivo, ma questo, durante i pochi minuti in cui mi soffermo e scambio due parole con lei, mi fa sentire a casa. Quella di suo padre è una casa editrice storica, conosciuta da chiunque abbia anche solo minime conoscenze bibliografiche: vi si possono ancora trovare edizioni datate ma curatissime dei primi Salgari o libri di curiosità varie e poi gli almanacchi Piemontesi, una vera chicca per gli amanti del genere. Questa volta l’occhio mi è caduto su Tutti Fotografi di Giuseppe Casalegno una seconda edizione degli anni Cinquanta e, ovviamente, non ho potuto non prenderla, tra l’altro per la modica cifra di 6 euro.
Gli ultimi due acquisti li ho fatti da Minimum Fax: Niente trucchi da quattro soldi i consigli di Raymond Carver per scrivere onestamente e Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato, di Francis Scott Fitzgerald, una raccolta di consigli a scrittori, lettori ed editori. Fra le altre cose Fitzgerald afferma che “non si scrive per dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire”: concetto essenziale e condivisibile. Pensando al Salone del Libro, mi è venuto in mente che, parafrasando proprio il grande Scott, non si pubblica per pubblicare qualcosa ma si pubblica perché si ha qualcosa da pubblicare. A buon intenditor…