Io e mia sorella abbiamo deciso di essere sorelle.
Siamo state favorite da un caso eccezionale: nascere dagli stessi genitori, vivere sotto lo stesso tetto e avere, questo sembra sia un segno sociale importante, lo stesso cognome.
Avremmo potuto comunque invidiarci o guardarci con sospetto l’un l’altra. Quentin Tarantino esiste e descrive la realtà. Non c’è dubbio che la gente si spara per due spicci d’argento o di carezze.
Ma noi siamo utopiche, puntiamo dirette alla concretezza: la decidiamo noi, la realtà.
A volte io tratto e Lia mena. A volte viceversa. Certo, nelle risse è più ovvia la collocazione.
Tocca controllare in tempi di pace. Ecco, noi come sorelle, in tempi di pace teniamo presenti i giorni di guerra; sembra che sappiamo di che si tratti, malgrado siamo figlie di un boom cieco e sordo e dei film di Frank Capra.
Noi la violenza la teniamo d’occhio, ci appartiene come un memento da evitare a tutti i costi. Attorno al nostro buon umore c’è una fervida attività, non sono cose che vengono così. Si potrebbe definire un’agricoltura della cena senza urla, della gita senza liti e dell’indulgenza plenaria sulle ovvie intemperanze di ognuno.
La sorellanza è un lavoro, una sorta di impegno ghiandolare che chiama perentorio come un ormone nell’ultimo secondo utile.
Lei è meglio di me, praticamente in tutto. È la verità. E io sono altra e sfuggo alla griglia di valutazione per non sapere i numeri dei miei limiti (ovviamente nascondo superpoteri Marvel che non rivelerò mai).
Questo è il nostro cantiere, sempre in attività, l’edificio di noi che ha già il suo bell’ingresso, e le sue stanze, anche quelle segrete, e il tetto e il camino… Ora vorremmo allargarci con una veranda sul giardino, sai quelle col dondolo per stare lì a chiacchierare e bere nelle sere calde d’estate…