Io, mio figlio e Lacan

«Tranquillo, pa’. Torno tra mezzora!» Il primo sms a mezzanotte. Dopo tre ore un altro: «Tranquillo, papi. Mi sono messo a chiacchierare. Torno tra mezzora». Alle tre e trenta squilla il telefono: «Pa’, cazzo, non l’hai visto che piove? Come faccio a tornare? Non puoi venirmi a prendere con l’ombrello?». Mentre vado, un nuovo sms: «Tranquillo, papà, mi sto riparando sotto il portone. Arriva presto però, che c’è un soggettone che si aggira». Mi rimetto a letto alle 4 e mezza. Non ho più sonno. Penso ai fantasmi. Non quelli tipo Belfagor: al fantasma di Lacan. L’oggetto piccolo che ognuno ricerca per compensare la perdita dell’oggetto grande: la madre. Il luogo della nostalgia che si contrappone al padre che è il luogo del dubbio. E per Lacan tutto questo è strutturato, anzi scritto, nell’inconscio già prima di nascere. Il discorso dell’Altro, lo chiama. Un particolarissimo trattato di psicologia di cui è munita la sottospecie dell’homo sapiens. Il bambino quando dice mamma per la prima volta, inconsapevolmente esplicita la perdita dell’oggetto del desiderio e quando chiama il padre vuole indicare la persona di cui, d’ora in avanti, dubiterà, e che costantemente metterà alla prova; ad esempio facendolo uscire alle quattro del mattino mentre un nubifragio si abbatte sulla città. Mio figlio ci ha messo un po’ a sviluppare il senso di perdita dell’oggetto grande, invece ha imparato subito a mettere alla prova il padre. E, poiché il dubbio rende vivi, continua a dubitare anche ora che è impegnatissimo nella ricerca del fantasma che dovrà fingere di sostituire il desiderio insostituibile. È un ghostbuster di talento. Ha acchiappato innumerevoli fantasmi di tutte le fattezze e età. Capelli biondi, neri e rossi. Occhi chiari e scuri. Con nomi classici e stravaganti. Alcuni, lo dico con un po’ d’invidia, di rara bellezza. Insomma, monsieur Lacan, mio figlio ha imparato perfettamente la sua lezione. E se glielo dico io, può stare tranquillo.

 

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