Le parole gli parlavano. Kerguelen. Il suono delle parole disegnava colori nella sua mente. Kerguelen. Il miele delle sillabe era musica, era poesia, era un’immagine che si formava e si sfaceva con grazia. Kerguelen. Dove poteva aver sentito quel nome così dolce?
Gli capitava spesso. A volte era un nome proprio, altre volte un aggettivo, o ancora un verbo, un sostantivo, più raramente una frase che, d’improvviso, riluceva come un’illuminazione tra i suoi pensieri, gettando un cono d’ombra sul resto, abbagliandolo e stordendolo con la propria corposità sinestetica.
Kerguelen.
Quando gli succedeva, ripeteva compulsivamente dentro di sé quelle parole, gustandole, assimilandole, scomponendole, facendole proprie, dando loro ─ e a sé ─ vita nuova.
Kerguelen.
Il mese precedente era stata la volta di placida: una goccia d’acqua che cade e s’allarga, quieta, completa nel suo spandersi, appagata del proprio confondersi in altro, assorbita in breve, o prosciugata, pacatamente rassegnata alla bolsaggine del proprio destino. Placida: si scioglieva in bocca, come una morbida pasta di mandorle.
E ora: Kerguelen.
Da dove veniva? Da quale conversazione, da quale scritto, da quale abisso enciclopedico l’aveva carpita? Non lo sapeva. Ma intanto (Ker-gu-e-len, Ker-gu-e-len) non pensava ad altro. Beveva il caffè (Kerguelen), andava al lavoro (Kerguelen), portava avanti gli affari (Kerguelen), chiacchierava con gli amici (Kerguelen), giocava con il figlio (Kerguelen), si coricava con犀利士
la moglie (Kerguelen).
Voi, persone di buon senso, avreste forse consultato un vocabolario, un’enciclopedia, chiesto a un vicino, pur di scoprire il significato di quell’assillo. Ma, vedete, il fatto è che per lui non era per nulla un assillo. Era una compagnia necessaria, indispensabile per riempire un vuoto inesprimibile. E poi… e poi sapeva che, al momento giusto, si sarebbe manifestata nella sua luminosa essenza: lo avrebbe avvolto nella pienezza del suo significato, gli si sarebbe offerta come un’amante dopo una lunga attesa.
Kerguelen. E alla fine gli apparve, in un francobollo.
L’album della raccolta di suo figlio, aperto sopra la scrivania, mostrava un francobollo delle isole subantartiche di Kerguelen. Ecco dove aveva rubato quel suono. E ora, più nitidamente, le immagini sfocate alle quali lo associava divennero visioni più nitide, limpide, nei sogni che evocavano. Immaginava se stesso andare incontro a quelle isole frustate dal blizzard. Si vedeva cercare nella tavolozza dell’immaginazione le più accese sfumature del paesaggio: il nero più impenetrabile di una notte senza suoni, il rosso più infuocato di un incendiato tramonto, il bianco luminoso e spumeggiante di acque in tempesta, la trasparenza di una pioggia incessante che si abbatte violenta, l’opacità perlacea delle brume oceaniche, che confondevano l’abisso dei suoi pensieri.
E mentre assaporava il senso di avventurosa solitudine per quel viaggio che non avrebbe mai compiuto, improvvisamente una nuova parola lo stordì: incommensurabile. Oh, che delizia, che splendore! In-com-men-su-ra-bi-le. Come il piacere di una vita segreta.