Per il Vangelo secondo Matteo Pasolini si reca in Palestina. Resta profondamente deluso. Sceglie di girare il suo film in Italia e costruisce le sequenze del Vangelo come predelle di una pala d’altare. Se alle spalle del crocifisso, sul Golgota tra i Sassi di Matera, si intravede un autobus su per i tornanti della collina, Pasolini non dà di matto, come farebbe ogni altro regista.
I perbenisti allibiscono: il Messia esibisce l’espressione severa di certe icone bizantine e non la stucchevole femminea delicatezza dell’immaginetta da Sacro Cuore. Ma è il paesaggio, così autenticamente italiano, a destare sconcerto.
Pasolini ha studiato sotto la guida autorevole di Roberto Longhi e sa che per gli artisti e i committenti della stagione umanistica la Storia è sempre contemporanea, come dirà poi Benedetto Croce.
Sulle pareti affrescate, accanto a Cristo e agli apostoli, sfilano cortei di nobili e paggi, come testimoni della Parola che si compie. Sullo sfondo il paesaggio del Bel Paese, un incanto che può indurre a credere che quella dipinta sia una natura esclusivamente idealizzata.
L’armonia delle colline, dei corsi d’acqua, delle campagne coltivate è invece una realtà storica, a tal punto che i luoghi rappresentati sono spesso identificabili con precisione. Il Rinascimento ci restituisce l’immagine dello spazio naturale, che è “bello” perché sapientemente governato dall’uomo.
Di fronte ai disastri ambientali di cui siamo ogni giorno spettatori, si ha il sospetto che quando Dostoevskij scrive «La bellezza salverà il mondo» intenda qualcosa di molto meno spirituale di quanto noi tutti siamo disposti a credere.