La capitale del XIX secolo. È così che Walter Benjamin definisce Parigi. La città delle Gallerie e dei percement, delle barricate e delle Esposizioni Universali gli appare, nella sua forma urbana, come il perfetto paradigma dell’ascesa della borghesia ottocentesca.
Donne con l’ombrellino e uomini con la tuba percorrono le interminabili prospettive volute da Haussmann quali flaneur instancabili. Per questa abitudine viene addirittura coniato un termine: loisir. Nuovo è il significante ma anche il significato; il “tempo libero” è infatti ignoto al popolo della rivoluzione abituato a spendere il proprio giorno soltanto nelle necessità e nella fatica. Ma “tempo libero” è una traduzione riduttiva; loisir è una parola che non ha un corrispettivo in altre lingue così come la forma urbana di Parigi, per quanti “tentativi di imitazione” vanti, non ha uguali. Per il loisir nascono parchi e musei, teatri e caffè che concludono o costeggiano gli ampi boulevard di quel passeggio senza fretta e senza meta.
Lungo quelle vie cammino per giorni, ritrovando la Ville Lumière dei libri d’arte e delle cartoline solo a tratti, come se la stessi guardando ancora su carta o su un monitor. Il racconto unitario dei grandi assi che la attraversano, visto dal vivo, mi appare intervallato da miriadi di dati laterali, fatti marginali che, curiosamente, malgrado la loro estraneità al disegno di insieme, sembrano concorrere a consolidare l’immagine della città. Rammento all’improvviso uno scritto di Sigfried Gideon su Parigi letto anni prima: dietro le facciate sulla strada, regolari e senza fine, si nasconde come dentro ad un armadio, un terribile disordine. Il terribile disordine occultato dietro i prospetti signorili è il residuo di una identità di Parigi che la deriva storicista di Haussmann ha tentato di rimuovere. È il racconto delle epidemie e delle sommosse, della miseria e delle barricate che, tagliato in due dal cult de l’axe, si ricompone dietro le facciate; ma non lo fa con la linearità di un processo storico, bensì con la frammentazione di un processo mnemonico che permane, ma tronco.
Capisco, allora, come, per comprendere questa città la visione unitaria della Storia, scritta proprio così, con la S maiuscola, quella che prevede una disposizione cronologica degli eventi allineati come i monumenti lungo i viali del Grande Demolitore, sia uno strumento inefficace. Capisco quanto sia invece la memoria di chi la attraversa a giocare un ruolo fondamentale; essa fa riaffiorare quelle tracce del passato ancora riscrivibili dall’intervento del presente costruendo ogni volta il disegno di una nuova, possibile Parigi. Capisco che questa città, in antitesi con il suo assetto urbano tanto compiuto da congiungere fra loro luoghi lontanissimi con l’artificio magico della prospettiva, si fa raccontare solo a tratti respingendo ogni forma univoca di descrizione; ma capisco anche che ogni volta che qualcuno la percorre essa si ricompone secondo un nuovo, possibile equilibrio. Capisco così che è proprio il flaneur, con i suoi passi casuali e indolenti, con il suo girovagare inquieto, a ripristinarne la compiutezza, divenendone parte, ordinatore, produttore di senso.