Eppure la mia prima colica renale non me la sono vissuta così male. Poteva andare peggio, questo è certo. Buscopan® e Voltaren® hanno fatto la loro parte, anche questo è certo. Però, ecco, dai, non mi sento avvilito. Non del tutto almeno. Trent’anni non fanno di me un gladiatore romano pronto ad affrontare qualsiasi impresa, non mi mettono la grinta rambesca di squartarmi e ricucirmi col coltello tra i denti, ma suvvia questa colica è stata bella. Anzi dovrei dire è bella. [Ancora non espello quello che dovrei espellere, ancora non ho sentito il famoso tic nella tazza del cesso, per intenderci].
E la parte bella è proprio la sensazione che dà il corpo. Non tanto come risponde, il dolore si sente eccome, sto parlando della sensazione di passaggio di un corpo estraneo e microscopico all’interno del corpo. Quella sensazione che avverti prima davanti, a sinistra, poi sul fianco, poi dietro; poi scende giù verso l’inguine, se ne va a finire nella vescica e quindi attesa.
È la sensazione stessa di corpo. Lo senti. Vivo. Quel carrozzone amorfo, spesso dimenticato, ridiventa il tuo. Ti ci riscopri dentro. Cocchiere di qualcosa di reale. Una riscoperta. E lui fa il suo dovere. Paziente. Tira fuori da se stesso il corpo esterno. Il corpo interno riscoperto tramite un corpo esterno divenuto interno al tuo corpo stesso. È normale. È reale. È bello.
Il pensiero corre subito ai grandi sistemi. Alla società che tenta di gettare fuori i piccoli movimenti antagonisti. Al mondo che cerca di liberarsi dal suo cancro più terribile, l’uomo. La società, il mondo ed il corpo ritrovano in quegli attimi, o anni, una propria sensazione di realtà. Il dolore, certo, è tanto, ma la vita assume tutto un altro spessore. In attesa del tic. Aspettando al liberazione.