La Compravendita
Io vendo la casa con tutto quello che per casa si intende
Tu compri solo un tetto sopra la testa
Io vendo la soffitta piena di piccioni e fasci di luce
che a strisce gialle si insinuano tra le tegole
tu compri uno spazio adatto per gli oggetti superflui
Io vendo tutte le cene con gli amici le loro voci sonore
Tu compri abbastanza metri quadri dove poter sistemare
una cucina italiana dal design moderno
Io vendo la vista sulla collina viola
e trent’anni di raggi di sole moltiplicati per 365 giorni all’anno
senza contare quelli bisestili
tu compri una finestra rivolta a est
Io vendo latte di luna il suo argento fuso
versato sui tetti dei vicini
Tu compri soltanto una veranda adatta per asciugare i panni
Della camera da letto non voglio parlare
per educazione
Ma posso facilmente supporre quello che tu compreresti
Vendo anche il suono nervoso dei miei tacchi che andavano
avanti e indietro avanti e indietro
su e giù
giù e su
mentre aspettavo i suoi passi per le scale
nel soggiorno
Tu compri il parquet di quercia ben conservato
e mi chiedi
quanto costano i ricordi
a metro quadro?
Zagabria, 3/11/2003
In questa poesia vi è un io rannicchiato in una casa in vendita, guarda alle cose nel loro significante di un’esistenza: gli oggetti di una vita esistono in quanto portatori di vita e nel momento in cui si è costretti a lasciarli bisogna iniziarne una nuova perché “L’illusione è anche una forma d’esistenza / finché non viene distrutta”. Jozefina Dautbegović ha scritto poesie dell’esilio, poesie della guerra, poesie della nostalgia, i suoi sono testi in cui le cose e i sentimenti possiedono una cifra strettamente personale, ma al contempo universale, scevra da retorica: narra le sofferenze e il dolore di chi ha dovuto lasciare la propria terra, la propria identità, costretto dall’esilio a un altro se stesso. L’abbandono e la costruzione, ovvero l’oblio e la speranza, frammisti a nostalgia – “[…] il mio tormento e quella emozione / che gli emigrati chiamano con il bel nome / di nostalgia” – sono un percorso tra i più accidentati. Non ci si aspetti cruente scene di sangue o grandi anatemi: quanto piuttosto una poesia fatta di quotidianità, di cose, di oggetti, una poesia che constata la fatica di essere vivi tutti i giorni, di correlarsi a un mondo che non è il proprio, a cui non si è scelto di appartenere, sempre a dover fare i conti con un io lasciato altrove, una luce che focalizza le sue vicende personali, una voce che dichiara la sua empatia con la storia dei popoli, con l’esilio forzato che fa parte della storia dell’uomo. Nonostante le dichiarazioni poetiche ed esistenziali di Jozefina Dautbegović – “ …[…] Non vivo in accordo con le nuove tendenze / perché sono ancora pronta a sacrificare il mio bel cappotto / anche se a ogni imbecille è chiaro da tempo / come siano del tutto irrevocabilmente passati / i bei tempi / degli spaventapasseri.” – il suo esser simbolo di una contemporaneità esistenziale è leggibile nei suoi testi, con la consapevolezza di come le migrazioni debbano essere un fenomeno di vicinanza umana: “Nel frattempo crescere di nuovo dentro di sé imparare a camminare per città straniere / smettere di fuggire correre volgersi indietro / Dobbiamo accordare con precisione i nostri passi a quelli altrui / vincere la vertigine orientarci nello spazio / imparare a parlare lingue straniere di giorno / di notte piangere esclusivamente nella propria lingua”.
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da Jozefina Dautbegović, Il tempo degli spaventapasseri, a cura di Neval Berber, in “In forma di parole”, numero 4, 2008