Mi intrigò subito, appena lo vidi.
“Permette?” e si accomodò di fronte a me.
Sorrisi, con educata e finta indifferenza. Così finta che iniziò subito a discorrere.
“Cosa legge?” domandò, ammiccando al volumetto che tenevo tra le mani.
Solitamente mi irritano le conversazioni imposte, di circostanza o di abbordaggio. Non quella sera.
“Cechov, le novelle”
“Ottima scelta” annuì. Guardò fuori dal finestrino, mentre lo sbirciavo curiosa. Strano tipo, “sembra uscito da un libro”, mi trovai a dire a me stessa.
Forse altri sarebbero stati colpiti dall’abbigliamento (cravatta di seta allacciata morbidamente, giacca attillata, guanti sottili: sembra una caricatura, in questa descrizione, ma vi assicuro che non mi parve tale) o dai chiari capelli lucidi, pettinati indietro negligentemente.
Ma a me infiammavano (ripeto, ne fui immediatamente intrigata) gli occhi, beffardi, consapevoli, inquieti. Quanti anni aveva? Mah… ancora adesso, ripensandoci, non riesco a valutarlo. Pareva a tratti giovanissimo, persino infantile, a tratti quasi anziano, a seconda di come la fioca luce dello scompartimento gli disegnava le ombre sul volto. Cercai nel mio archivio di immagini quella che più potesse avvicinarsi al bizzarro personaggio: “un prestigiatore, un viveur, uno scrittore da salotti, un seduttore, un nobile decaduto…” elencavo tra me, ma nulla pareva adeguato a definire quell’uomo. O forse tutto.
“Anch’io amo i russi.” riprese “Conosce Dostoevskij? Certo che lo conosce” chiese e si rispose, senza darmi modo di parlare.
“E’ mai stata a San Pietroburgo?”
“Solo nei libri” e sorridemmo entrambi.
“E’ così che lei fugge?” mi apostrofò quindi bruscamente.
Rimasi sorpresa, quasi più dal tono che dalle parole.
“Beh, è un luogo comune – no? – l’evadere con la lettura” banalizzai.
Non mi concesse di farlo.
“Non mi riferivo a uno stupido modo di dire” mi sferzò con una durezza incomprensibile “Lei sta fuggendo davvero. E lo sa”.
Tacqui. Lo sferragliare del treno riempiva il finto silenzio in cui ascoltavo i miei pensieri.
“Non so nulla, non capisco” fissavo quegli occhi febbrili “E’ uno scherzo” provai a sorridere.
“Non ne ho il tempo” e inaspettatamente rispose al mio sorriso, ma poi riprese a parlare con molta serietà.
“Anch’io sono fuggito, sa?”
“Ah sì?”
“Ha mai sentito parlare della Confraternita delle Persone Perdute?”
“La Confraternita delle Persone Perdute?” ripetei ottusamente.
“Proprio. Ne faccio parte da otto anni” aggiunse, non capii se con orgoglio o rammarico.
“Di che si tratta?” chiesi sporgendomi verso di lui.
“Siamo tutte persone che, fuggendo, si sono perse. Non riusciamo più a tornare indietro”
Rimasi in silenzio, in attesa di un’ulteriore spiegazione che non arrivò.
“Mi perdoni” mi decisi a chiedergli, vedendo il suo sguardo perso sulle luci che fuggivano fuori dal finestrino “E’ un circolo di evasi? O di smemorati?” provai a buttarla sullo scherzo, ma la mia voce non era allegra.
Posò nuovamente quegli strani occhi su di me.
“Ho iniziato come lei” mormorò, e la sua voce era morbida, lontana, una voce che mi pareva di riconoscere, o meglio, di conoscere da sempre.
“Ho iniziato come lei” riprese “Leggevo e mi perdevo nelle vite degli altri, in mondi, epoche, storie lontane e più vere della mia storia, della mia esistenza, del mondo in cui ero costretto a vivere”
Sospirò.
“Arrivai ad un punto che confondevo il dipanarsi delle mie vicende personali con quello del protagonista del romanzo che stavo vivendo, cioè, leggendo” si corresse “Non mi importava più nulla di me, scialbo e insignificante nella mia storia già scritta. Potevo amare, morire, urlare, combattere, soffrire, godere, con un senso – capisce? – un senso artistico, perfetto, molteplice”. Si interruppe, per prendere fiato. Si era accalorato e le sue guance parvero imporporarsi, ma forse fu un lampo che venne da fuori. Lo capivo perfettamente. Glielo dissi. Mi guardò con un’intensità che ancora oggi, al ripensarci, mi scuote profondamente.
“Lo so” disse “per questo le ho parlato della Confraternita”. Era serissimo, quando continuò “Siamo in tanti, sa? E ci siamo perduti. Io, per esempio, stavo leggendo “L’Idiota” di Dostoevskij quando è successo”
“Vuol dire che lei…” cominciavo ad intuire.
“Sì. Mi sono perso in quel romanzo. Non sono tornato più indietro. Ma non è successo solo a me, creda” si affrettò a precisare “Ad alcuni è capitato con libri diversi, ma ad altri è bastato seguire una vela in un orizzonte marino, altri ancora si sono smarriti guardando dalle imposte delle loro finestre. Non c’è un unico modo, un unico viaggio, un’unica fuga”. Si interruppe.
“E dove si va, quando ci si perde?” chiesi “E gli altri, se ne accorgono che siamo perduti?” (Sì, dissi “siamo”).
“Dove si va? E’ difficile spiegare. Non c’è più spazio, non c’è più tempo. Non sei più tu, o meglio: sei come uno specchio andato in frantumi, ogni frammento riflette qualcosa di diverso e di uguale, qualcosa che ha perso la propria unità e si spezza in mille immagini, in mille…”si interruppe, pensieroso “…parti di te. Gli altri no, non si accorgono di niente. Non sanno che parlano ad un guscio vuoto. Non ci conoscevano prima, non ci conoscono poi”.
“E la confraternita?” lo incalzai.
“Le persone perdute si riconoscono tra loro, si…annusano, si scovano. E si uniscono, fratelli in un’anomalia crudele e meravigliosa”
Sfuggivo il suo sguardo, ora, persa a seguire lo zigzagare di una linea bianca in una lunghissima galleria. Quando ne uscimmo, voltai gli occhi, ma lui non c’era più. Al suo posto, sul sedile, c’era “L’Idiota” di Dostoevskij.
Dopo pochi minuti, il treno si fermò ed io scesi alla stazione di San Pietroburgo.