Vivevamo in un paesello della Bassa padana, per me i fiori erano quelli delle ripe di fosso e dei campi: violette, ranuncoli, pratoline, nontiscordardime, papaveri, fiordalisi sopra tutti. E il ricordo ormai scialbo delle mimose d’oro, della prima infanzia a Nervi.
C’era pure un giardino, che oggi sarebbe di moda definire shabby, senza progetto né armonia. Sua principale attrattiva era albergare una colonia di gatti. Vi svettavano un paio di magnolie, minuscole rose pompon, fiori e arbusti crescevano rustici, come spontanei: peonie, ortensie, sparuti tulipani di tinte disposte a casaccio, rari mughetti, un cespuglio di calicanto, prodigio d’inverno, e uno di viburno, con le sue palle di neve fatte apposta per giocarci. L’uomo che se ne occupava, più ferrato nella cura dell’orto, discuteva con mio padre al tavolo fratino, in cucina, sulle sementi da procurare al Consorzio agrario o da ordinare dal catalogo Ingegnoli, che dopo mi era consentito sforbiciare per farne collage.
Quando lessi Il giardino segreto di Frances Burnett vagheggiai di essere io, al pari della spigolosa Mary che sentivo sorella, a ridargli vita. Se pure, cosa assai improbabile, mi fosse stato concesso, ero troppo concettuale e maldestra: in seguito avrei giustiziato persino le piante grasse dell’Ikea.
Detestavo i gigli che i parenti portavano per Sant’Antonio, mio compleanno e onomastico di mio padre, mi infastidivano gli steli troppo lunghi. Trovavo fasulli anche anturium, gladioli e sterlitzie, che a volte comparivano a Natale, e le baccarat color sangue, immutabile dono di mio padre a mia madre per gli anniversari di nozze, in numero dispari via via decrescente.
Alle medie fui ammaliata dalle orchidee, o meglio dalla sfacciata Cattleya rosa Schiaparelli, che un giorno avrei incontrato tra le pagine di Proust. Fu un tralcio lussureggiante a rapirmi, nella bottega di una delle metropoli che di rado visitavamo, o forse a casa della zia sposata a un chirurgo, che riceveva tanti omaggi.
Comprai libri illustrati, m’inebriai viaggiando fra orchidee di ogni dimensione e sfumatura, imparai che da una, messicana, nasce la vaniglia. Tuttavia, ostinata, restai fedele alla Cattleya, mio oggetto del desiderio. Solo più tardi, innamorata dei fiori bianchi al limite della monomania, avrei preferito il rigore dell’aerea Phalaenopsis, ancor oggi favorita accanto alle calle.
Mio padre, cresciuto in collegio a Torino, intriso di silenzio − virtù e croce −, prese a regalarmi orchidee, specie a San Valentino. Ma, per ignoranza o taccagneria, solo di rado Cattleya, oltretutto anemiche e intrappolate in scatole con la fialetta di liquido. Tristi, per nulla esotiche e carnali. O, ancor peggio, ramoscelli degli odiati Cypripedium, coriacei e verdognoli, i paria fra le orchidee.
Eppure non smettevo di sperare e deludermi, ringraziando ogni volta per creanza, con occhi mesti.