I titoli di testa scorrono con lo sciabordio discreto dell’acqua che viene assorbita da una grata, acqua con liscivia che la domestica usa per pulire i pavimenti. Città del Messico, 1970, una bella casa borghese situata in un quartiere medio-alto, lontano dai tuguri delle baraccopoli, in cui vive una famiglia agiata: il padre medico, la madre, quattro bambini, una nonna, un cane e due cameriere. Cleo, oltre alle pulizie, si prende cura dei bimbi più piccoli, va a prenderli a scuola e li coccola con tenerezza e, a parte qualche brusco richiamo all’ordine, tutti le vogliono bene. Cleo è sveglia per la sua giovane età, il sorriso è dolce, il fisico tarchiato e robusto, i tratti del viso tipici degli indigeni messicani e si accontenta di poco: un cinema alla domenica e un’occhiata alla tele insieme alla famiglia. Alfonso Cuaròn firma con “Roma” il suo film più intimistico, rievocando la sua infanzia e le tate che lo hanno cresciuto, mescolando ricordi e fatti storici: i mondiali di calcio e il terremoto del ’70, la violenta repressione da parte del governo e di forze paramilitari fasciste nei confronti di studenti universitari che volevano maggiore autonomia e diritti, sfociata nel giugno del ’71 con la barbara uccisione di più di cento di loro. Con una fotografia in bianco e nero che rende a volte netti a volte nebulosi ambienti e personaggi e una colonna musicale variegata che si adatta alle scene del film (Da No tengo dinero alla Fantastica di Berlioz, da Mi corazòn es un gitano al rock’n roll messicano), Cuaròn mette in scena i contrasti di quegli anni: la miseria degli indio e la ricchezza dei padroni (tutti bianchi e di origine europea) e, allo stesso tempo, il dolore e la disperazione che può colpirli in ugual misura. Con toni da neorealismo di ritorno, “Roma” è un Come eravamo che pur denunciando storture e ingiustizie sociali, lascia la parola agli sguardi e ai “non detti”. Toccante la recitazione della venticinquenne Yalitza Aparicio nella parte di Cloe, ottima quella di Marina de Tavira nel ruolo di Sofia (la padrona di Cloe) e in generale brave tutte le interpreti femminili; negative o inesistenti quelle maschili (il marito di Sofia, il ragazzo di Cloe), bravi solo a fuggire dalle loro responsabilità. Lunghissimo (135 minuti), lento, pieno di simboli che ciascuno può interpretare a suo modo, “Roma” ha vinto tutto (3 premi Oscar: miglior regia, miglior film straniero, migliore fotografia, oltre al Leone d’Oro al Festival di Venezia, a innumerevoli Bafta e Golden Globes). Un film bello e straziante che inquadra luci e ombre di un Paese sfortunato. Messico, la faccia triste dell’America.