Poche torce sciamavano per i vicoli di Atene, come serpentelli di luce. Dall’atrio saliva la melodia, i cembali tintinnavano e il flauto gorgogliava. Agatone accolse gli ospiti sulla soglia e li fece entrare nella sala, dove risplendeva il corredo per il vino.
Il simposio stava per cominciare, ma la figura tarchiata di Socrate si affacciò nel rettangolo della porta. Il naso camuso, la fronte spaziosa e lo sguardo vigile. «Di cosa discorreremo, Agatone?», chiese mellifluo, «d’amore? E se invece discorressimo di un argomento che ci stesse davvero a cuore? Questa sera non vedo Platone, che poi spiffera tutto! Perché non parliamo di calcio?».
Era notte fonda quando il giovane Alcibiade, già brillo dopo il naufragio di un altro festino, approdò alla casa di Agatone. Gli ospiti erano riversi sui triclini, esponevano alla luce calda delle lucerne oscure zone d’ombra sul corpo, lividi violacei qua e là, e le teste coronate di bende, che somigliavano a garze.
In un angolo il vecchio Socrate continuava a farneticare: «Io so di non sapere, a eccezione di questo, e cioè che la squadra del demo di Alopece non la batte nessuno, c’è poco da far filosofia!».