Sono titolare di molte finestre, nessuna mia. Ho una casa e una vita piuttosto affollate, per possedere le quali devo praticare insonnie. Loro dormono, io esisto, vago, mi aggiro, scrivo. Odio il vociare dei passanti, aggressivo, crudele, un vociare romano ormai da tempo privo di allegria, che spezza il filo del dialogo che intrattengo con me stessa.
Perciò non possiedo finestre.
Io il mondo lo guardo dalla finestra che capita, il che allarga la visuale e apre scenari. Se a ciò aggiungo due figli dagli occhi grandi, sommo altre finestre, a volte indesiderate, che mi strappano al consueto. Mio marito è un’altra finestra, ma ultimamente sembra aver perso la voglia di guardare.
Il salone ha un affaccio sul Verano. Quasi tutte le mie case sorgono nei paraggi di un cimitero.
Nell’attuale appartamento mi sono superata: godo di una vista senza intralci sulla vita e sulla morte, sulle metamorfosi e i virtuosismi del tempo.
Persino la malattia è ben rappresentata da esasperanti teorie di ambulanze dirette al Policlinico o al Pertini, lampeggianti azzurri e urla da prefiche.
Nessuno costruirebbe qui un belvedere per turisti. Ma ha la poesia degradata di una busta di plastica che danza nel vento e niente che blocchi lo sguardo, come piace a me.
La fabbrica di legname che sta sul marciapiede di fronte, andata a fuoco tempo fa, ha un tetto basso, ristrutturato tre anni or sono da orde balcaniche senza caschi di sicurezza, e poi lasciato lì. Dicevano che sarebbe sorto un centro commerciale, ma le erbacce hanno vinto di nuovo. Dall’altro lato di via Cupa, che incrocia la mia strada, casette operaie e officine resistono esauste all’assalto degli alternativi e della speculazione immobiliare che li segue. Mi dicono che le prostitute dell’est prendano il sole sui terrazzini, ma è più lontano, nei vicoletti che vanno verso piazzale Tiburtino, io non le ho viste mai. Accanto ai cassonetti della spazzatura, dove accade di tutto, una sera scoprimmo una giovanissima ragazza slava prepararsi un giaciglio di fortuna con i cartoni. Mio marito scese a offrirle aiuto, ma lei rifiutò. Rimasi, durante la notte, a sorvegliare dalla finestra. Sono nata madre, mi affilio anche i criceti, figurarsi una bambina bionda e allucinata. Passò uno dei tanti immigrati ospiti del centro sociale in fondo a via Cupa, si calò la braghetta e cominciò a pisciare fra i bidoni. Quella volta, però, la creatura bionda emerse dai cartoni e cominciò a urlare; l’uomo scappò quasi avesse visto un fantasma. Poi anche la ragazza svanì, Dio sa dove.
Alle spalle di questa pignatta di vite, si snoda la Tiburtina, con i suoi platani, i pini giganteschi e il traffico rassegnato. Dietro ancora, il Verano, muro di cinta, colombaie, alberi pizzuti, qualche tomba monumentale decorata da generazioni di marmisti che hanno riempito di anarchica bellezza la città dei morti. Il cimitero volta le spalle alla sopraelevata che lo assedia sulla sinistra, offendendo equamente i vivi e i morti.
Un giorno di alcuni anni fa, mio marito mi ha detto “Vieni con me”.
Per la prima volta sono entrata al Verano, né io né lui andiamo mai al cimitero. Mi pareva di essere in gita nel verde dolce di memoria. Abbiamo girovagato molto alla ricerca di una colombaia, ma lì era bruttissimo, anche in morte c’è la villa e la casa popolare. Alla fine l’ha trovata e mi ha presa per mano.
“Papà, questa è Ornella”, ha detto, rivolto a un loculo con la foto di un uomo dagli occhi malinconici, identici ai suoi.
Come in un vecchio film, ho lasciato un mazzetto di fiori.