La Freccia del Sud

 

Si chiamava Pietro, ma non guardava mai indietro. Era nato a Barletta, la città della storica disfida, e tutta la sua vita fu una sfida: una sfida contro un fisico normale, contro l’ambiente in cui era nato, contro colossi dello sport che si chiamavano Stati Uniti e Unione Sovietica. La sua specialità erano i 200 metri e fu con quella gara, stretto d’assedio da russi bionici e portentosi afroamericani figli di Mandingo, che conquistò il cuore del pubblico. Fu bronzo alle olimpiadi del 1972, vinte dal russo Borzov, ma due anni dopo quel ragazzo mingherlino e con la mandibola protesa verso il filo di lana, azzannò l’oro ai Campionati europei di Roma. La sua apoteosi, però, furono le Universiadi di Mexico City del 1979, quando sfruttando l’aria rarefatta dall’altitudine, trasformò in pura energia tutto l’ossigeno accumulato in un torace da uccello preistorico. Fece il record del mondo dei 200 metri, con uno strabiliante 19”72 che resistette per diciassette anni. Gli restava un traguardo da raggiungere, l’oro olimpico. Ci riuscì a Mosca, nel 1980, in un’Olimpiade che sembrava stregata per lui e destinata al dominio del britannico Wells. Pietro compì il miracolo. Partì male, facendosi staccare dall’inglese. Poi affrontò la curva in maniera irripetibile, facendo a pugni con la forza centrifuga, spinto dal suo corpo leggero e incurvato, che gli dava un’andatura sgraziata e inelegante, ma straordinariamente redditizia. A soli venti metri dall’arrivo, quando Wells si sentiva già medaglia d’oro, i piedi a papera di Mennea lo affiancarono. Wells fu secondo per soli 2 centesimi. Pietro aveva vinto, il britannico aveva commesso un errore: si era voltato impercettibilmente per guardare indietro.

Pietro Mennea
(Barletta, 28 giugno 1952 – Roma, 21 marzo 2013)

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