La Giostrina di Mahler

 

La musica si gonfia, sospinta dagli ottoni. I fiati soffiano raffiche impetuose. La melodia estenuata dagli archi sembra ridursi a un’eco lontanissima. E ancora una volta tutto precipita nel rimestio dell’organetto di paese, nel giro di manopola sul dorso dell’automa, nel movimento sciancato della ballerina che sbuca dalla scatola del carillon.
Gustav è affetto da titanismo musicale, ma i suoi giganti hanno piedi di argilla. Muovono il passo, salendo scale di marmo e, una volta in cima, ruzzolano rovinosamente.
Sul lettino dell’analista il musicista ritorna bambino, tra i fantasmi della nevrosi che ha generato uno stile.
Suo padre ha aperto una distilleria nella cittadina di Iglau. È un uomo violento e rissoso. Sua madre partorisce quattordici figli. È una donna buona. Sette fratelli muoiono da piccoli. Il destino degli altri è non meno nefasto.
Poi ricorda un dettaglio. Non di poco conto. Il padre picchia la madre. La picchia spesso. Quando ciò accade il piccolo Gustav fugge per non vedere, per non sentire. Fugge in strada, dove c’è una giostrina che suona. È un motivetto insulso, com’è insulsa la vita.
Ora lo sa. Non è questione di stile. Nel cuore dell’abisso, quelle note d’infantile leggerezza sigillano il segreto di un male insopportabile. La seduta è finita.

 

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