Non mi piace
Si può parlar del vacuo ma non rimanendo in superficie, senza sporcarsi. Sorrentino, ne La Grande Bellezza, dipinge il vuoto ma non osa guardarlo da vicino. Mantiene le distanze da ciò che vuole trasmettere; entra in punta dei piedi nell’acqua sporca ma non vi nuota. Quella del regista è una furberia, per raccontare lo stagno devi prima affogarci dentro. L’immagine di una Roma decaduta seduce lo straniero. Della culla della civiltà rimangono le arcate in travertino del Colosseo e le colonne binate della cupola del Michelangelo, rimane la culla, dunque, ma non la civiltà. Il film vanta una fotografia eccelsa, un Servillo superbo, una scenografia suggestiva. Eppure la sceneggiatura mi appare povera, la struttura narrativa poco avvincente e priva di tensione. La storia avanza per stereotipi tratteggiando personaggi poco credibili. Non vi è crisi, non vi è conflitto. Nani, suore, cardinali, zoccole, night, uno stormo di fenicotteri e una terrazza incantevole. Sono rimasta ipnotizzata di fronte ai visi plastici che si muovevano, avanti e indietro, a ritmo di musica tunz tunz e avrei guardato quelle scene per ore. Il tramonto dei Principi Colonna, appesi alle promesse di un telefono, mi ha strappato un sorriso. Il personaggio interpretato dalla Ferilli, invece, mi ha creato un notevole imbarazzo e per un attimo ho creduto che quella al Giardino degli Aranci fosse un’esterna di “Uomini e Donne”. A dispetto di chi azzarda parallelismi con La Dolce Vita ritengo che Sorrentino non sia riuscito a rendere l’abile gioco Felliniano di fondere il comico con il drammatico. I personaggi di Fellini ci disorientano, ora ci accendono ora ci lasciano contrariati, ma ci emozionano. Le forzature de La Grande Bellezza si autocompiacciono per l’illusione che il film abbia uno spessore mistico. Ma La Grande Bellezza non nasce dalle viscere del regista, è solo il prodotto dell’industria del mero intrattenimento; non è frutto dell’ispirazione di un artista inquieto, ma pura retorica registica.
(Anna Giurickovic Dato)
Mi piace
La Grande Bellezza, mentre all’estero colleziona premi prestigiosi, in patria è sottoposto al fuoco amico dei detrattori. La critica nostrana muove, spesso, dal paragone con La Dolce Vita di Federico Fellini. Ma la Roma di oggi non ha nulla a che vedere con quella, da noi fantasticata nella nostalgia, della Dolce Vita. E se proprio c’è necessità di fare confronti tra i due registi, per Fellini dovremmo guardare a Roma, film dove scorre un filo rosso tra lo schiamazzo del popolo trasteverino e le case decadenti e buie popolate da nobili e prelati; là dove Roma è “un cimitero che scoppia di vita”, come diceva il grande Federico.
Se vogliamo capire la cifra di Sorrentino ci dobbiamo spogliare del bisogno di cercare nel film un giudizio morale sulla mondanità. La Grande Bellezza ci mostra con precisione come il salotto, se pur vacuo, regni sovrano nei secoli dei secoli. Ci indica il Potere della mondanità, ci descrive i tentativi umani per entrarci a patti o, persino, di provare a dominarla. La frase chiave è quasi in apertura del film, quando il magistrale Toni Servillo, nei panni di Jep Gambardella, passeggia lungo il Tevere, guarda in camera e dice: «Io non volevo essere, semplicemente, un mondano. Volevo essere il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire».
Il potere sontuoso, cosciente e insieme elegiaco de La Terrazza di Ettore Scola qui è sostituito dalle consorterie para intellettuali e affaristiche della città. Una città malata, dove le lotte e l’indolente cinismo ci lasciano in pace solo all’alba. La luci livide del mattino disegnano una metafisica della città. Vuota, slabbrata, con i rumori che scivolano senza assordare. Una breve, volutamente inverosimile, sospensione temporale crea spazio al pensiero profondo e alla riflessione. Un pensiero amaro, narrato con una regia attenta, che quando si perde e divaga lo fa per farci perdere e divagare a nostra volta. Sorrentino prende le distanze dalla Roma bonaria dei tramonti mozzafiato. La Roma de La Grande Bellezza non ha l’anelito al riscatto sociale e umano del cinema degli anni sessanta. È la rappresentazione di una città e di una mentalità sgradevole, ma che bisogna avere l’audacia di guardare. Dispiace, certo che dispiace, che il giorno raccontato non sia ‘nu juorno bbuono. Ma il film è davvero di grande bellezza.
(Cristina Cilli)
Non l’ho visto
Non sono andata a vedere “La grande bellezza”, pur amandone il regista, Paolo Sorrentino e l’interprete, Toni Servillo. Non ci sono andata perché le opere troppo chiacchierate e osannate mi respingono ma soprattutto perché, avendone letto qua e là, non volevo soffrire. Non volevo vedere Roma nel suo splendore e nella sua bassezza; ascoltare i dialoghi sordidi, anche se solo immaginati, di certi ambienti pseudo-artistici e di spettacolo; avvilirmi con la miserabile rappresentazione di vite sballate e prostituite; aggiungere alle mie menate esistenziali quelle dei protagonisti; registrare i fallimenti delle vite altrui. Dice Jep, il protagonista: «Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?». Appunto, perché? Quasi tutti i critici lo descrivono come un film barocco e io detesto il barocco. E poi, appena uscito, l’ho associato mentalmente alla “Dolce vita” di Fellini. La quinta è la stessa, il lavoro dei due protagonisti pure, il generone umano medesimo. Ecco, per il momento non voglio guastarmi il ricordo della Roma di cinquant’anni fa, Marcello bellissimo, la Ekberg che si immerge nel Fontanone. Ora che il film ha vinto l’Oscar, mi sento un po’ in colpa, probabilmente sono l’unica che non l’ha visto. Ci andrò, con calma, quando il clamore si sarà spento. E comunque rivendico, come fece Pennac per i libri, il diritto di non andare al cinema, se non mi va.
(Costanza Firrao)
Foto iniziale: Gianni Fiorito