La lezione di Liliana

Il teatro alla Scala gremito, tanti liceali in platea e nei palchi, l’atmosfera solenne delle grandi occasioni, la bandiera italiana in un angolo: la senatrice a vita Liliana Segre, introdotta da un commosso Enrico Mentana, prende la parola. Un racconto lungo, pronunciato a braccio, senza interruzioni, la voce ferma che si alza nei momenti più drammatici. La storia di una bambina che vive felice, viziata e serena col papà e i nonni – la mamma è morta che era piccolissima – in una bella casa borghese di Milano. La famiglia è di origine ebraica ma laica, e Liliana frequenta la scuola di via Ruffini. E’ il 1938, Vittorio Emanuele III ha appena firmato le leggi razziali e lei, ad appena 8 anni, viene espulsa dalla scuola perché ebrea, parola di cui Liliana non capisce quasi il senso. E’ disperata, le mancano le sue compagne, le feste, la sua vita. Anche gli adulti non si rendono conto di quanto la situazione stia precipitando verso “destinazione ignota”, i pochi che capirono scapparono subito in Francia e in America, ma tutti gli altri restarono. Il senso di isolamento si fa sempre più pressante, le amiche di scuola (a parte tre con cui rimarrà in contatto) non si interessano di lei, del perché di quel banco vuoto. Gran parte dei loro conoscenti è indifferente, disinteressata alla loro sorte, tranne alcuni che già allora fecero la scelta di aprire gli occhi. Con l’inizio della guerra e dei bombardamenti, la famiglia sfolla in Brianza ma anche lì a Liliana è preclusa la scuola. La bambina si occupa del nonno Giuseppe, malato di Parkinson, gli legge delle storie ma lui piange in continuazione: avverte che la fine è vicina. Lui e sua moglie Olga moriranno subito ad Auschwitz, senza funerali e senza tomba. Il 31 gennaio verrà posta una pietra d’inciampo a Milano in loro memoria. Nel frattempo è caccia all’ebreo, degli amici si offrono di ospitare, a costo della propria vita, la bambina e di nasconderla a Castellanza. Liliana è disperata, l’adorato padre finito chissà dove. La situazione precipita ulteriormente, tentano la fuga in Svizzera. Una spedizione grottesca – racconta Segre – in cui un gruppo di contrabbandieri senza scrupoli, progenitori degli attuali scafisti, sfruttò l’ansia di ebrei e antifascisti solo per profitto. Entrano come clandestini e richiedenti asilo in terra ostile – io so cosa si prova, ripete Segre – ma l’asilo viene negato e sono costretti a tornare indietro, in Italia, dove tutta la famiglia viene arrestata dalle camicie nere. Varese, Como, il carcere di San Vittore che Liliana vedeva un tempo dalla sua bella casa: la piazza su cui s’affacciano entrambi gli edifici è la stessa, solo la prospettiva si è ribaltata. In prigione ma con di nuovo suo padre accanto che Liliana, appena tredicenne, consola e abbraccia come fosse suo fratello o suo figlio. Ero un adolescente – e la voce si alza, diventa potente – ero una ragazzina, ma ero forte. Siamo tutti forti a quell’età, se dobbiamo – soprattutto noi ragazze, rivolgendosi alle studentesse in sala, che applaudono e applaudono. Il tono si fa di nuovo piano, racconta del giorno in cui a San Vittore entrò un soldato tedesco e lesse 600 nomi, tra cui il suo, quello del padre e dei nonni, annunciando la partenza per l’indomani, “destinazione ignota”. Quando la fila silente attraversa il carcere, dalle sbarre dei detenuti comuni si alza un saluto corale, affettuoso. Criminali, ladri, forse assassini, furono gli unici a provare empatia – vi vogliamo bene, che Dio vi benedica – gridarono. Quindi nei sotterranei della Stazione, nel ventre nero della città, ammassati come bestie al macello sul Binario 21. A controllarli non i nazisti ma i loro servi fascisti. Cinquanta persone stipate per vagone, scatole buie in cui al centro viene piazzato un secchio per le urine e gli escrementi: il secchio simbolo dell’umiliazione e della perdita di dignità che viene inflitta ai prigionieri. Il viaggio dura una settimana: c’è chi piange, chi prega, ma forse Dio è distratto – aggiunge Segre con durezza. Sbarcati sulla Judenrampe di Auschwitz, Liliana stretta al suo papà, vengono “accolti” da un interprete italiano che li rassicura: “Calmi, vi dobbiamo solo registrare, gli uomini di là, le donne di qua”. Liliana, da quel momento, non vide più suo padre (ucciso il 27 aprile del ’44). Nel lager non le fu risparmiato niente: il forno crematorio, il suo odore, le baracche, la vergogna del Male altrui (Primo Levi).
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Liliana, come tutti gli altri, fu marchiata, il suo nome non esisteva più, era un numero, il 75190; denudata nel gelo del lager davanti ai soldati, ein Stück, è un pezzo di carne e niente più. Fu persino facile per i negazionisti negare l’Olocausto, tutto era troppo tragico per essere vero. Con la qualifica di “schiava operaia”, Liliana ha la fortuna di uscire dal campo e di andare a lavorare nella fabbrica di munizioni Union della Siemens: lei e altre 600 donne di tutte le nazionalità hanno il privilegio di ricevere una zuppa per pranzo e del pane con margarina la sera. Tre volte al mese passano la selezione da parte dei Kapò: nude, magre, rasate ovunque, vengono ispezionate, le abili restano al lavoro, le altre mandate al forno. Liliana è stata operata di appendicite qualche anno prima, ha paura che la scartino per la cicatrice sul ventre; un medico, che poi scoprirà essere il Dottor Mengele, osserva il taglio, le chiede di dov’è, poi commenta (lui, il macellaio) che l’operazione gliela avrebbe fatta meglio e la lascia andare. Tra le compagne di lavoro ha un’amica, Jeannine, cui la macchina ha tranciato due dita della mano, fu fermata e scartata: non mi voltai indietro – dice Segre – ero diventata una lupa affamata ed egoista. Nel gennaio del ’45, il campo fu evacuato e con i pochi sopravvissuti Liliana affrontò la “marcia della morte” verso la Germania: 700 km a piedi o sui treni bestiame, destinazione Malchow, vicino a Ravensbrück, dove poi incontrò la figlia di Nenni, Vittoria. Nessuno durante la marcia si volta a guardare, finestre chiuse, brucavamo nei letamai e mangiavamo gli avanzi dei tedeschi. Dov’erano tutti? – si chiede Segre – solo indifferenza, silenzio, silenzio di Dio, della Croce Rossa, degli Ebrei di Palestina. Nel campo di Malchow si vedeva almeno il verde dei campi intorno e anche se stavamo pigiate tutte insieme, ricoperte di insetti, di vomito e sangue, eravamo felici perché avevamo capito che la guerra e la prigionia stavano per finire. Era il primo maggio del ’45 e il comandante del campo, destituito dai soldati dell’Armata Rossa, si mise in mutande e poi si rivestì con abiti borghesi. Quando buttò la pistola, lo odiai – racconta – avrei voluto ucciderlo, sarebbe stato un finale perfetto. Ma in quel momento capii la differenza tra me e lui: io non avrei mai potuto farlo. E così rimasi quella donna libera, amante della pace che sono.
Liliana Segre, 88 anni, Senatrice della Repubblica italiana.

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