Quel mattino, mia madre, undici anni, si era ritirata a giocare coi gatti sulle balle di fieno, nel suo rifugio segreto appena sotto il soffitto della stanza che dava sulla cantina.
La cantina di casa mia, in quei giorni di pesantissimi bombardamenti lungo la ferrovia che portava da Bazzano a Vignola, era stata trasformata in rifugio.
Il nonno aveva riempito la stanza soprastante la cantina di balle di fieno ─ che a quei tempi erano ancora parallelepipedi ─ fino al soffitto, nella speranza, forse ingenua, che quelle balle avessero potuto proteggere “il rifugio” dalle bombe che cadevano a grappoli ovunque.
Tra il soffitto della stanza e l’ultimo strato di balle di fieno era rimasta un’intercapedine. Si trattava di uno spazio in cui solo mia madre, piccina, aveva la possibilità di intrufolarsi, in compagnia dei suoi gatti e con i libri che otteneva dagli sfollati da Bologna, scambiandoli con pagnotte di pane e fiaschi di vino.
I liberators, le fortezze volanti, solcavano il cielo provenienti da ogni dove. Quando bombardavano, racconta mia madre, non c’era scampo. Correvi verso nord, e pareva venissero da nord. Scappavi verso sud, e pareva che il loro muso scintillante al sole venisse dall’Appennino. Fuggivi a est, a ovest, e te li trovavi sempre di fronte.
Quella mattina i tedeschi avevano piazzato proprio una contraerea mobile presso la stazione del trenino, per coprire la ritirata delle loro truppe verso Modena. Vicinissimo a casa mia. Il giorno prima la Wehrmacht aveva divelto tutte le traversine della ferrovia, per non lasciare vantaggi all’avanzata degli alleati. Due soldati tedeschi e un sergente erano entrati in casa da mio nonno, chiedendo cibo e ricovero per i cavalli. A onor della verità, dice mia madre, tutte le volte che ciò era successo in quei giorni, nessun tedesco aveva mai torto un capello alla gente che si era raccolta, da molte case bombardate, nel “rifugio” cantina di mio nonno.
Il 21 Aprile mia madre leggeva Salgari, sdraiata sulle balle di fieno, nella sua intercapedine, perché stranamente dopo tanti giorni di bombardamenti a tappeto non c’erano fortezze volanti in cielo. Pace e silenzio. Strano, pensavano i grandi, godendosi il sollievo dal terrore. Bello, pensavano i piccoli, leggendo Salgari.
E qualcuno che corse da Bazzano urlando: «A ghé i inglìs à l’acquedòtt!», ci sono gli inglesi all’acquedotto, cioè a due chilometri da lì.
Poi tutto successe. La terra cominciò a tremare e l’orizzonte fu oscurato da un muro di carri armati. Mai visti, enormi, con una stella bianca sconosciuta sulla torretta e sui fianchi. La polvere e il fumo di gasolio toglievano il respiro.
I Tank avanzavano passando sopra le recinzioni della ferrovia, abbattute e schiacciate come panetti di burro.
Un tank sbuffò, sputò olio, si fermò con gli enormi cingoli di traverso nell’aia della mia casa, il cannone puntato verso nord, in un turbine di polvere e nero.
Decine di occhi si spalancarono, terrorizzati, nell’oscurità della cantina. Mio nonno sussurrò: «Se sono tedeschi siamo finiti. Hanno deciso di fare resistenza all’avanzata qui, gli inglesi ─ perché loro solo gli inglesi conoscevano ─ raderanno al suolo la casa».
Tuttavia nessuno si mosse, erano paralizzati dalla paura.
Finché Piràt, Pietro, il più coraggioso di tutti, ricacciò il terrore in gola e salì zoppicante le scale che lo separavano dal buio impaurito della cantina, al sole sfavillante di polvere e odore di esplosivo e metallo di quel carro armato sull’aia.
Qualcosa sembrava strano. Sembrava che più che un carro armato tedesco appostato per far resistenza, quello fosse solo un veicolo in panne. Piràt si piazzò nella perpendicolare del cannone, strinse gli occhi e urlò, metà in italiano, e metà in bolognese:
«Tedesch o Inglesi!?».
Con fragore la torretta del carro armato si aprì. Piràt si insaccò tutto, come per sgonfiarsi, per farsi piccolo.
Dalla sommità del tank sbucarono una testa e due spalle massicce, poi un corpo atletico, un omone nero lucido di sudore.
«American, American!».
E quel rumore, quel terremoto di carri armati, quel nero di polvere e fumo passavano, come un sogno, verso Modena, verso Milano, verso nord, verso il 25 Aprile 1945.
Restò il carro armato in panne dell’omone nero, solitario e silenzioso nell’aia di questa casa da contadini inondata di sole, nella pace di un cielo ora solo azzurro, e la mamma giocava all’altalena aggrappandosi al cannone.
grazie, è molto bello <3