LA LINEA VERTICALE

Luigi, quarantenne in forma e discreto nei modi, con una figlia di 7 anni e una moglie (Greta Scarano) incinta di 8 mesi, scopre casualmente, dopo un’analisi alle urine, di avere un tumore al rene. Dopo altri accertamenti viene ricoverato in un grande ospedale pubblico napoletano. Smarrito e confuso, comincia da subito ad avere strani sogni che gli sembrano reali ma reali non sono. In camera con lui c’è Amed, un iraniano nato in Italia (il bravissimo Babak Karimi) ma per tutti un povero immigrato, anche lui afflitto da un tumore recidivo. Luigi, firmando il consenso informato (una serie di terribili disastri cui potrebbe andare incontro) viene nel frattempo in contatto con medici e personale infermieristico. Dal chirurgo disilluso (Antonio Catania) che si perde tra citazioni di Baudelaire e brani di musica classica e per il quale è sempre e solo colpa dei “vasi” – sanguigni, si suppone – e il chirurgo che crede fortemente nella medicina (Nini Bruschetta) fino al primario che opera tutti e che a detta di tutti è “un Dio”, il mite e empatico dott. Zamagna. La caposala ascolta musica a palla, smadonna e beve caffè a manetta, le altre brusche ma alla bisogna affettuose mettono cateteri, sondini e infine li tolgono. Ma il vero mattatore di questa storia “vera” è un fantastico Valerio Mastandrea, che interpreta Luigi, i suoi deliri, le sue paure, il senso di inutilità che gli perfora le viscere peggio del bisturi che taglia, taglia, asporta milza, rene, e altre escrescenze che hanno proliferato chissà come dentro di lui. Nessuno sembra ascoltarlo quando, dopo l’operazione, debole e dolorante, chiede notizie sull’esito dell’intervento, sul suo futuro: risposte sfuggenti, alcuna certezza sul decorso della malattia – occorre aspettare l’esito di questo e di quello, “un passo alla volta”, è il mantra. I giorni passano, con ritmi consueti, episodi di ira repressa che scatta all’improvviso nei pazienti allettati, le visite affettuose della moglie (sempre più enorme nella sua gravidanza), i consigli non richiesti di malati che si credono luminari e quelli del prete che si aggira sicuro nelle stanze e che poi verrà colpito a sua volta dalla malattia. Scritto da Mattia Torre, regista di valore, “La Linea verticale” (meglio stare dritti che orizzontali) racconta la storia del suo soggiorno in ospedale e del suo tumore (dal quale non riuscirà a guarire, morendo a soli 47 anni nel 2019). Mastandrea veste i suoi panni, e pian piano troverà un modus vivendi tra il suo precario stato di salute e il desiderio di godere di tutto ciò di cui si può godere. Una poesia di Borges, recitata da lui al prete malato, racchiude tutta la sua voglia di vivere. Otto brevi episodi, densi, toccanti, ironici, divertenti nella loro tragicità.
La linea verticale di Mattia TorriItalia 2018Netflix

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