Questo è il primo dei due migliori racconti del Corso di Scrittura Narrativa Ottobre 2024 tenuto da Valeria Viganò
Aveva gli occhi chiusi, Nibir. Sognare di esser acqua ‒ quell’acqua che non lo dissetava più ‒ era una consuetudine amara. Un braccio piegato sulla fronte a lenire il mal di testa, il suo corpo, divenuto d’un tratto liquido, raggiungeva le persiane.
Oltre, la vita: un barlume di sole; un vecchio sulle strisce, che si guardava attonito intorno; una colonna di macchine che gli imprecava contro. Su tutti, l’occhio della Stazione Termini bianca e compatta, che troneggiava e prometteva perdono e misericordia. Nell’alveare di quindici piani, in cui Nibir giaceva, i più dormivano, sepolti sotto lenzuola di giornali; litigavano in hindi; disegnavano parole bengalesi; pregavano Allah; onoravano Vishnu. Appendevano Cristi bendati alle pareti. Le donne cucinavano piatti di riso, curcuma, spezie e carne.
Dal decimo piano la vita si faceva rarefatta. Lì le parole Premier, Zona Rossa, Covid non attecchivano. Perché loro erano troppo presi dal fabbricare la roba da vendere in strada.
Tre pomeriggi prima Nibir si era rifugiato all’ombra della Stazione. Aveva la bici di Glovo. Vedeva la sua ombra allungarsi e tremare. Guardava le nuvole staccarsi e affondare in un cielo stagnante e troppo ceruleo. Allora, aveva sentito il freddo. E la gioia minima d’essere scampato al contagio si era confusa in un brivido.
Molti dei suoi coinquilini avevano ‘la lunga febbre’, come la chiamavano.
Nibir era stato tra gli ultimi ad ammalarsi. Un sogno malevolo, il contagio. Si sentiva vecchio. Era suo nonno? Usciva dalla capanna con un cane cieco e vedeva le risaie ridotte a pozzanghere, la terra farinosa. Un sole abbagliante e blasfemo, i suoi occhi erano sale che brucia. Ricordava quando la pioggia allagava il terreno mentre il villaggio agonizzava. Del raccolto, quell’anno, rimaneva una sola pianta di mais.
Il resto era solo un risveglio, qualche suono e penombra. Penombra erano anche le due donne morte la notte prima del suo risveglio malato. Di loro non restava che l’immagine di petti e sessi scorti tra i sari.
Il padrone, dall’inizio dell’epidemia, non faceva che venire nottetempo. Si era disfatto dei morti che occupavano le sue stanze. Parlava dell’Aniene come di una nuova Benares. A loro, che erano musulmani.
Qui tutto bene, amma, non ti preoccupare, continuava a ripetersi, nel fuoco blu della febbre. Ho diciannove anni, non mi beccherò nulla, amma. Lavorare per Glovo non era niente rispetto alla piantagione di zucchero, al sole che increspava le sue spalle di dodicenne. Niente rispetto alla fabbrica di mattoni. Poi era venuto lo Zio. C’era sempre uno Zio che partiva per l’Europa e batteva le campagne. Porta con te il mio Nibir, l’aveva supplicato la madre, pregherò per te, mentre gli porgeva un sacchetto colmo di ciò che restava della sua dote. Solo tu puoi aiutarci, ora che mio marito è morto.
Ti manderò tutto quello che guadagnerò, amma. Così Nibir era partito. All’inizio era l’inserviente, il cuoco, il mezzano, l’amante occasionale. Poi, lo Zio l’aveva liquidato. Ed era giunto lì, aveva iniziato a fare il rider, vivere nell’alveare davanti alla Stazione.
La febbre saliva, saliva e poi scendeva, e lasciava sempre un desiderio di zucchero, una bocca dal sapore pastoso di cenere e sabbia. La febbre era un freddo fuoco blu che faceva sognare a Nibir il Colosseo, il Colosseo Quadrato, San Pietro o il Pantheon fatti tutti di zucchero bianco. Omini di zucchero che piovevano sul cielo di Roma.
Nell’ora rovente della febbre, una vampa di vergogna lo atterriva. Solo allora le promesse non mantenute si mostravano. Per fortuna sapeva di essere solo. E poteva piangere. Loro ‒ gli ultimi arrivati – dovevano dare tutto per un lavoro; per il permesso di soggiorno; per capire cosa ordinasse il padrone o il funzionario.
Stare in casa era un costo aggiuntivo all’affitto, per il thé o il riso mattutino, la doccia settimanale o le coperte.
Così Nibir pedalava sempre. Stremato, sedeva accanto alla bicicletta, e guardava le risate argentine nelle caffetterie e nei ristoranti. Afferrava solo ‘vabbé che vuoi che sia? passerà’ e ‘babbà’. Gli italiani lì erano molto diversi da quelli che ‒ in pigiama, in tuta, in accappatoio – prendevano la consegna, gli sbattevano la porta in faccia e cercavano di non toccare le sue mani.
Le sue sere migliori, ripensava, iniziavano quando le storie di suo nonno prendevano vita sopra il fuoco. E continuavano la mattina dopo, quando Nibir chiedeva, con una lucertola in mano o mentre si dondolava da un ramo, nonno un uomo potrebbe sollevare dieci tronchi insieme? E un uomo, se pregasse Allah, potrebbe correre più veloce del vento? Poi c’erano le storie dei briganti. E il racconto dei tre uomini presi e portati via dalla jeep militare che lo impauriva e non poco.
In pasticceria, quel giorno Nibir era arrivato in ritardo. Caricata la bicicletta qualcosa l’aveva fatto sussultare. Poi, un ronzio cieco e nero gli s’era conficcato sotto pelle e le gambe era diventate caramello. Tanto che Nibir si era accasciato in terra.
Un ragazzo, allora, l’aveva soccorso. Passatemi dello zucchero, presto. I più, infastiditi, si chiedevano perché, perché dovessero assistere ad una scena così. Nell’atrio della pasticceria siciliana a Piazza della Repubblica il pianoforte si era fermato e qualcuno aveva gridato d’un’ambulanza.
Al risveglio Nibir aveva sentito solo: non mangi da stamattina, vero? Poi aveva mandato giù la polverina bianca. Così diversa dallo jaggery, che gli occidentali disdegnavano tanto, perché lo trovavano poco dolce.
Sei uno di quegli esseri di cui parlava mio nonno, vero? Avrebbe voluto chiedergli Nibir. Ma non sapeva come si parla ad un Angelo. A un Deva o a un Jiin. Avrebbe voluto chiedere a suo nonno, lui sì avrebbe saputo cosa fare.
Che fosse uno di loro, Nibir l’aveva capito dall’odore. Un odore dolce di vaniglia e fragole. I bianchi che conosceva non profumavano.
Il terzo giorno di ricovero, oltre a dei vestiti puliti, un pigiama e del cibo, il ragazzo gli aveva portato un ciclamino. E gli aveva detto è una pianta che non si dà mai per vinta. Come te, vedrai.
Denutrizione, globuli rossi troppo bassi, piastrine inesistenti, blaterava il medico. Lo avrebbero trattenuto in ospedale per mesi. I primi giorni, quando Nabir non faceva che sonnecchiare, il ragazzo l’aveva vegliato e accudito. Nabir, però, non gli aveva mai detto nulla.
In lui c’era il monito degli anziani della casa. A quelli come noi è proibito parlare, dicevano. Mai guardare i bianchi troppo negli occhi.
Se l’era portato via Nibir il ciclamino, quando aveva levato le tende. Alle prime luci dell’alba stridente, abituale ed estranea insieme. Dell’angelo, del deva o del jiin gli rimaneva quel fiore che mai aveva visto prima. Avrebbe ringraziato Allah per averglielo mandato, aveva promesso, una volta in strada. In ospedale si andava per morire, come dicevano nella sua famiglia, e lui non si sentiva neanche malato.
Latente, il ricordo dell’incontro con il ragazzo aveva lavorato in Nabir come un tarlo. Da quando, quel pomeriggio, era giunto davanti al Colosseo Quadrato. Dal primo mattino non aveva fatto altro che fuggire. Fuggiva dai corpi dei due ragazzi che si rigiravano nella morsa della febbre lunga. Due materassi più in là. Li avrebbe ritrovati ancora vivi? O erano già corpi spenti?
Davanti agli archi e le statue, così nude, con loro due aveva spezzato risate, vagheggiato un ritorno a casa, sperato in una qualche prosperità.
La vita, allora, si era rivelata a Nibir come una salamandra scivolosa, un frinire lontano, una spettrale luce marzolina. Sentiva che il prossimo ad ammalarsi sarebbe stato lui. Aveva pedalato fino alla Stazione. Lì si sentiva al sicuro. Per minuti lunghissimi, aveva guardato la sua ombra tremare. Aveva sentito il freddo e capito che il suo corpo era infetto.
Accanto a Nibir, nell’olezzo della febbre lunga, il ciclamino continuava a fiorire. I sogni, i colori, le sagoma degli oggetti confluivano nel gracchiare esausto del tramonto, quando giungeva l’ora sicura che arrivava dopo il resoconto dei contagi che il televisore scandiva. Tutto, allora, respirava di nuovo. Per ricadere, poi, in un’attesa bianca. La Stazione ‒ un tempo rumorosa, era ridotta al silenzio ‒ sprofondava. Nell’aria c’era il sentore che prossima a cedere sarebbe stata Roma.
Nibir, spossato come un fucile che aveva sparato, tentava di lenire il mal di testa. Confinarlo in una zona remota. Poteva percepire un dolore meno intenso. Ma per poco. Del ragazzo rimaneva lo zucchero, che Nibir custodiva alla meglio.
Da qualche notte aveva iniziato a visitarlo l’uccello dalle piume scure, quello di cui parlava suo nonno. Viene a notte fonda, tutti dobbiamo seguirlo. Non averne paura, figliuolo. Mai. Il tempo vuole il suo tributo. E il suo compito è liberare l’anima dal corpo fallace per guidarla fino alle mani del Profeta. Solo allora, la tua anima diventerà un uccello sgargiante e pronto a cantare davanti all’Onnipotente.
Nessuno di quelli che insieme al padrone portavano via i corpi immaginava, qualche notte dopo, guardando Nabir steso sul materasso, che quel sorriso leggero, sulla faccia nascesse dall’aver spiegato le ali ed essersi trasformato in un uccello dalle penne colorate.
bello e struggente
fa entrare in tante atmosfere diverse facendone vedere le immagini, ma anche sentire l’odore e il sapore
commuove in maniera serena
molto bella!
Un racconto intenso e struggente, capace di trasportare il lettore nel mondo di Nibir con una prosa evocativa e poetica. La narrazione dipinge con delicatezza e forza il dolore, la fatica e la speranza di chi vive ai margini, intrecciando sogni e realtà in un ritratto toccante e vibrante di umanità. Il finale, sospeso tra malinconia e liberazione, lascia un segno profondo.
Molto bello. Una scrittura sensibile, al servizio di uno sguardo attento all’umanità