La lunga vita delle zanzare

Da oggi la collaborazione tra La rivista Intelligente e la Scuola di scrittura Valeria Viganò si fa più stretta. In sintonia con il comune lavoro letterario, i due migliori racconti dei corsi di ottobre e marzo, verranno pubblicati integralmente su queste pagine. Anche se sono di lunghezza del tutto anomala rispetto alle abitudini e alle regole di Elleri – La Redazione

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La cena del 28 agosto, nel casale di Carlo Cattaneo e della sua compagna Isabella, cominciò come sempre alle venti e trenta, con gli ospiti abituali: alcuni degli amici storici – loro si autodefinivano una famiglia di fatto – e altri di più recente conoscenza; nell’insieme una compagnia bene affiatata. Era l’ultima cena di una lunga estate e l’indomani il gruppo di Virginia Castelli sarebbe tornato a Milano, Ludovico Banchieri avrebbe raggiunto il suo studio di architettura a Tokio e tutti gli altri sarebbero rientrati a Roma, ad eccezione di Palma Bellardita.
Presero posto portandosi l’aperitivo a tavola.
“Temevo proprio di non piacergli più, da tempo mi ignoravano in modo sfacciato” Palma sussurrava incredula a Carlo che le sedeva a fianco.
“Ma mia cara, cosa ti salta in mente”- lui le diede dei colpettini affettuosi sul braccio- “hai la solita faccia di tolla da bugiarda sentimentale!”.
Palma stava inclinata di lato, con la mano destra nascosta sotto il tavolo impegnata a massaggiarsi le caviglie. Poi si chinò decisa e anche la sua testa sparì.
Si grattava, era assalita da una zanzara e da nugoli vaganti, simili a veli strappati, di moscerini che ondeggiavano attorno alle gambe scomposte dei commensali, entravano nel cono di luce verdastra proveniente da un faretto posato lontano, sul prato, e poi sparivano nella penombra.
Sopra la sua testa sentiva il rumore dei bicchieri e bottiglie spostati, e Carlo che rideva:”Ma perchè alcuni di noi, qui presenti, abbiamo fatto la prima vacanza insieme cinquantanni fa? e ancora siamo qui, dopo cinquantanni, ancora insieme ad alcune delle ganze di allora?”.
Da sotto il tavolo Palma scorse sul viale i cani che galoppavano abbaiando furiosamente verso il cancello, e intanto continuava a sfregarsi le caviglie. Da bambina arrivava a farle sanguinare, d’altra parte nella cascina della Bassa Padana, alla confluenza dei due fiumi, in estate non c’era salvezza. Si rivedeva in fila con suo fratello e gli altri bambini, le mani tappate sulla bocca per soffocare la ridarella, saltellare di gioia avvolti nella nuvola puzzolente del DDT. La nonna pompava con vigore lo stantuffo della bombola di latta, fiduciosa nelle scoperte della chimica.
Sul palcoscenico sopra di lei continuava la recita che tanto le era piaciuta e che era sicura sarebbe durata per sempre. Invece per lei sarebbe stata l’ultima.
Riemerse con cautela da sotto il tavolo e, in risposta agli sguardi interrogativi, spiegò misteriosa: “Si tratta di un tardivo colpo di fiamma, non c’è dubbio”.
“Colpo di fiamma? Colpo di fiamma di chi?” Isabella non riuscì a trattenere la domanda. Serrò le labbra stizzita, in attesa della spiegazione che qualcuno si sarebbe degnato di propinarle. Lei non apparteneva al gruppo originario delle ganze, a dire il vero era così tanto più giovane di loro da essere la terza compagna di Carlo, e il gioco pesante delle allusioni, da cui era esclusa, era durato tutta l’estate e non ne poteva più.
Ludovico sogghignava e si sbracciava girando attorno al tavolo, mimando la caccia a un’invisibile zanzara, finchè Virginia decise di venire in aiuto a Isabella: “Ma mia cara, chi vuoi che abbia un ritorno di fiamma per noi ganze? giusto le zanzare, le uniche che apprezzano la pelle delicata della nostra povera amica” – e aggiunse, fissando Palma – “proprio adesso, strano vero?”.

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Un enorme insalata russa fu portata al centro della tavola e il giallo intenso scaldò gli occhi dei commensali che iniziarono a mangiare parlando tutti assieme, mentre Palma rispondeva allo sguardo di Virginia. Non è strano che succeda ora – le diceva – le zanzare si stanno finalmente prendendo la loro vendetta, me l’hanno giurata tanto tempo fa quando le ho abbandonate andandomene dalla cascina. Ma le zanzare hanno la sapienza delle creature primordiali, e sanno aspettare chi torna sconfitto.
Intanto erano arrivati i cani, ansimanti, e si accucciarono vicino a Carlo. Accarezzando il muso spelacchiato della vecchia Mosca, lui raccontò di quando era andato a sceglierla nella cucciolata del fratello di Palma, alla cascina – aveva questi occhi neri tondi come quelli di una mosca, impressionanti vero? però i suoi erano buoni e ti giuravano amore eterno.
Carlo aveva accennato alla cascina (doveva comunque succedere, prima o poi) e ora sarebbe stato inevitabile parlare del trasferimento di Palma. O, se fosse stata fortunata, il discorso sarebbe scivolato verso la beatificazione della vita campestre e la santificazione del bio a Km 0. Ma Isabella, che non era molto interessata alle vicende di Palma e soprattutto era arcistufa dell’eden bucolico in cui si era trovata prigioniera quell’estate, bloccò ogni discorso con una delle sue domande spiazzanti: ” Ma ora che torni a vivere là alla cascina, Palma, credi che troverai ancora i figli di Mosca?”.
“Certo”- rispose lei – “si chiamano Moschito, Tafana e Pappatacio”. Si alzò da tavola bruscamente, e si allontanò in fretta, per non sentire Ludovico raccontare i dettagli che aveva suggerito a Palma e al fratello per valorizzare la divisione della loro proprietà.
Andò in camera sua. Sul letto c’era l’i-Pad aperto.
Nel primo pomeriggio aveva iniziato a scrivere due e-mail ai suoi figli, che si erano trasferiti all’estero dopo il disastro che li aveva travolti tutti, lei compresa. I suoi figli erano arrabbiati con lei perchè era caduta insieme a loro, ed erano ancora troppo giovani per accettare il fatto che la caduta è un accidente, un regalo della vita che non puoi rimandare al mittente. Aveva rinunciato a scrivere parole che sarebbero rimbalzate contro un muro e aveva cancellato le e-mail, limitandosi a poche parole di affetto.
Poi era rimasta sdraiata a lungo, girellando su internet e alzando gli occhi verso una zanzara con le zampe lunghe e le ali diritte come una libellula, che si spostava lenta tra il soffitto e le tende. Quando l’insetto era sceso troppo vicino a lei, aveva cliccato, nervosamente, il pulsante ‘salva’ sull’immagine dello schermo, una foto notturna del Tevere, nastro di raso lucente insinuato tra i gioielli sfolgoranti delle sue rive.
Si rese conto che era stata via troppo tempo da tavola, doveva raggiungere gli amici e farsi perdonare qualche impertinenza. Nell’uscire dalla stanza prese con sè li-Pad. Si avviò lungo il portico con passo deciso e con la coda dell’occhio notò che la zanzara dalle ali di libellula volava al suo fianco.

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Posò l’i-Pad sulla tavola davanti a Ludovico. Lui lanciò un’occhiata di striscio alla schermata:
“Però! questi droni! Foto strepitose per realtà fasulle, guardate”. Gli era uscita bene, la giusta nota sarcastica avrebbe dato il via al coro di indignazione contro la retorica della ‘grande bellezza’. Intanto spingeva l’i-Pad verso Virginia, che gli sedeva di fronte. Ma di colpo si bloccò con le braccia a mezza’aria, rigirò e riportò verso di sé lo schermo. Fissava l’immagine accarezzandosi pensoso la barba grigio biondastra.
“Beh, che ti prende?” – Virginia ruppe il silenzio che era calato sul tavolo- “non penserai di fare il misterioso anche con noi, mica ci intorti come i tuoi clienti giapponesi”.
Ludovico era sempre più perplesso, con una mano si teneva la fronte e con l’altra faceva segno a tutti di avvicinarsi:
“Venite qui, venite a vedere” – indicava col dito malfermo un punto sulla sponda sinistra del Tevere- “eccolo!” -era sbalordito- “proprio il terrazzo della mia povera zia Dorina”
“Ma dove? quale terrazzo?” – domandavano gli amici allungando il collo sopra le sue spalle. E mentre individuavano la fila di luci -senza dubbio il perimetro rettangolare di un terrazzo- credettero di vedere la povera zia Dorina, che non avevano mai conosciuto da viva, fluttuare nell’aria umida insieme a una libellula notturna, avvicinarsi ai fiori della tovaglia e poi risalire verso il lume appeso alla trave del pergolato, e poi ancora volteggiare in cerchi concentrici fino a posarsi proprio lassù, nel punto esatto dello schermo in cui compariva la sua amata casa.
Trattennero il fiato nel timore che la libellula si alzasse in volo.
“Ma è una cosa fantastica! Che ci fa lassù la tua zia Dorina?” Isabella era eccitata e Ludovico le rispose seriamente:” Io lo so che ci fa: se la gode. Se la gode per come ha fregato suo fratello, lo stronzo fascista che già le aveva rubato la metà di quell’attico! Devi sapere, cara Isabella, che il coglione aveva pronto in tasca il progetto di accorpamento delle due proprietà” – Ludovico ridacchiava – “e quando è stato aperto il testamento della zia Dorina, quell’idiota tronfio, paonazzo di rabbia, ha sbattuto a terra la sedia urlando: Noo!”.
E tutta la tavolata, in coro, recitò insieme a Ludovico:”Noo! Al suo nipote prediletto, l’architetto frocetto, noo!”.
Carlò portò su dalla cantina una bottiglia importante e annunciò:” Questa la conservavo per l’anno prossimo, per il mio settantesimo compleanno, ma, sarete d’accordo anche voi, il momento giusto per festeggiare è stasera”. Isabella gli passò il braccio attorno alla vita e si stringeva a lui contenta, la storia della zia Dorina la divertiva, e soprattutto era interessante – disse – che tutti loro, covo di vecchie volpi che la sapevano lunga, intrallazzassero con i fantasmi.

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“Hai proprio ragione, Isabella, è così” – Carlo confermò – “tu sei una giovane bella donna, una combattente determinata della vita, noi invece ci siamo ritirati nelle torri a duellare con i fantasmi”. Si baciarono e bevvero l’uno dalla flute dell’altra, dando l’avvio a un brindisi solenne che contemplò divagazioni vertiginose sulla natura provvisoria delle cose.
“A proposito di natura provvisoria”- intervenne Virginia, la cui lingua impastata dal bicchierino di troppo aggiungeva densità alle parole- “essendo la casa di zia Dorina, pardon, l’appartamento di Ludovico voglio dire, provvisoriamente libero, non sarebbe la casa giusta per Palma?”
Si girarono verso di lei e ognuno sembrava stupito di non averci pensato prima (Ludovico addirittura si battè il palmo della mano in fronte più volte).
Palma tacque a lungo. Lei non ci aveva mai pensato, ed era la prova evidente dalla sua perdita di lucidità, le venne in mente l’espressione ottundimento delle facoltà intellettive, era chiaro che ne aveva sofferto dopo il trauma del sequestro della sua casa. Negli ultimi mesi, mentre con i figli e gli amici simulava un disinvolto fatalismo, ogni suo pensiero era stato affannosamente rivolto alla ricerca di una casa, e, nell’ossessione di cui era preda, non aveva avuto orecchi per ascoltare il dolore di Ludovico per la morte della zia Dorina – la sola in famiglia che fin da ragazzo l’avesse accettato ed amato. Né aveva capito che Ludovico, ereditando il piccolo attico della zia, l’aveva lasciato vuoto per rispetto della vita solitaria della zia che non voleva estranei in casa.
Ma Palma non era un’estranea e Ludovico, d’accordo con gli altri, glielo stava ora offrendo.
A beneficio di tutti loro, Palma fece quel suo gesto consueto, lento, di sistemarsi ad arte lo chignon, fissandolo più in alto sulla testa. Poi si tirò sù con la schiena ben dritta, appoggiò i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani intrecciate. Interrogò con lo sguardo obliquo tutti i presenti, uno per uno.
“Alla fine ci siete riusciti a mettermi con le spalle al muro, vero?” affermò allegramente.
Con le spalle al muro ci era finita da sola, loro conoscevano tutta la sua situazione, ben oltre le notizie di dominio pubblico, scandali finanziari vari e la fuga in un paradiso fiscale del suo ex marito. E la tragedia finale di aver perso la sua bella casa di Roma.

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Palma andò a sedersi sul divanetto di vimini e Isabella prese posto accanto a lei.
Un colpo di vento passò sotto il pergolato, fece ondeggiare i cespugli di abelia contenuti nei grandi cocci e si portò via manciate di fiorellini bianchi e rosa. Palma guardava i piccoli fiori indugiare prima di ricadere a terra e osservava quelli più tenaci restare a lungo fermi a mezz’aria, e quando il vento passò via rimasero due petali trasparenti, prima sospesi nel vuoto, poi trasportati lentamente in alto. Li seguì sorridendo finché scomparvero nel buio.
“Li hai visti anche tu?- chiese Palma a Isabella.
“Io guardo altre cose, cerco di vedere quali sono le mie priorità, e come raggiungere gli obiettivi che mi sono data” -rispose la ragazza – ma se tu vedi le libellule forse è quella la tua priorità”.
Davvero in gamba la ragazza, ma il metodo di Isabella – scegli le tue priorità – era inapplicabile per lei, a causa di una delle ragioni più potenti che fanno girare il mondo: non aveva soldi, a seguito del crac dell’ex marito, oltre alla perdita della casa aveva subito il congelamento provvisorio (quanto provvisorio?) del suo conto bancario. E dunque non poteva scegliere. Era obbligata a tornare alla cascina. Suo fratello e la cognata le offrivano di collaborare alla gestione del loro Hotel di Charme, aperto da poco ma già ben frequentato da clienti stressati dalla vita in città, che trovavano un ambiente di relax raffinato e l’avventura di incantevoli gite in barca a remi sul fiume. Con sua cognata si erano sempre piaciute fin da ragazze, si intendevano bene, e Palma le avrebbe portato un regalo speciale, uno dei pezzi più preziosi della sua ‘Cartier insect collection’.
Un fulmine lontano sceso dritto dal cielo spaccò a metà il mantello nero della notte, e, contemporaneamente, sgarbugliò la matassa arruffata dentro la mente di Palma.
Isabella era ancora accanto a lei, Palma le prese le mani tra le sue e le disse:”Ti devo ringraziare, mi hai fatto capire quanto è importante rispettare le nostre priorità”.
E mentre Isabella sorrideva compiaciuta, Palma si alzò in piedi e chiese agli amici un momento di attenzione.
Si sforzava di mascherare l’allegrezza per la soluzione che aveva appena trovato: la ‘Cartier insect collection’! La preziosa collezione, regalatale dall’ ex marito nei primi anni di matrimonio, le suscitava ribrezzo da decenni, quegli insetti riprodotti con maestria sopraffina, incastonando le pietruzze colorate nell’oro, la disgustavano al punto che non ne aveva mai indossato uno.
Ora finalmente lo zoo degli orrori avrebbe dimostrato la sua utilità, trovando la collocazione che gli spettava. Al Monte di Pietà. Lei ne avrebbe ricavato di che andare avanti per un bel pò, e al bisogno avrebbe impegnato altri inutili gioielli; inoltre, se le cose si fossero messe male, c’erano arredi e quadri e tappeti e il tanto che aveva saggiamente sottratto al pignoramento.
“E dunque” – disse agli amici- “eravamo rimasti al fatto che mi avete messo con le spalle al muro, e i muri di Roma io li amo, voi lo sapete”.
La guardavano in attesa, e Virginia, la prima a intuire che la casa ereditata da Ludovico sarebbe stata la soluzione giusta per Palma, la sollecitava a rispondere.
Palma parlò direttamente a Ludovico:
” SI”-disse- “penso che la casa della zia Dorina sarebbe la casa giusta per me”.
“Ottimo, ma sappi” -lui precisò- “che nell’affitto è compreso anche il fantasma della povera zia”.

La serata del 28 agosto finì tardi.
In camera sua Palma posò sul cassettone l’astuccio di velluto bordeaux. L’indomani l’avrebbe impacchettato con cura, prima di partire per la cascina a salutare il fratello e la cognata e comunicare loro che il progetto di collaborazione al Relais Chateau sarebbe saltato, in quanto lei si sarebbe fermata a Roma. Sua cognata si sarebbe dispiaciuta, ma avrebbe apprezzato il regalo. Palma aprì l’astuccio, e i bagliori della miriade di piccoli diamanti che ricoprivano la libellula di Cartier attraversavano la stanza come stelle cadenti.

La libellula di Cartier
La libellula di Cartier

 

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