La mano di Fatima

 

Sono una clandestina.

Sono una migrante.

Sono una profuga.

Sono una donna in fuga.

Ho la lingua così asciutta e ruvida che nemmeno riesco a parlare. Tanto nessuno parla, forse per lo stesso motivo, forse perché non c’è niente da dire, niente da dirsi in questa deportazione volontaria.

Seduta a gambe larghe per fare spazio a una pancia dilatata da sette, forse otto, mesi d’amore. Sola con il mio fagotto ingombrante. Il responsabile della mia trasformazione fisica cinque mesi fa perse la testa. Come tanti, insieme a lui, in un’esecuzione di massa. Ho pianto sul resto del suo corpo, poi ho messo le lacrime in tasca. Dovevo portare via quella vita che mi espandeva prima che aprisse gli occhi sulla terra che l’aveva seminata; terra arida concimata dall’ignoranza, dalla follia e dal dolore.

I soldi per il viaggio me li sono fatti infilare dentro, col sorriso sulle labbra, da un numero imprecisato di uomini. Il mio corpo era diventato un salvadanaio. la sua fessura si adattava a ogni taglio di moneta e le penetrazioni erano passi verso un barcone, verso una costa, verso il meno peggio.

Ho sonno, la gravidanza mi fa dormire tanto ma, in questa situazione, mi fa gioco. Il tempo scorrerà lo stesso e allo sbarco sarò meno stanca.

Ho toccato il fondo, lo so. Lo sento!

La sabbia è morbida e si infila tra le dita dei piedi, il tessuto del mio abito danza con le alghe che mi passano sul collo e sul viso come tante lingue morbide.

Mani portafortuna fatevi levatrici! Date alla luce, pur fioca, il mio pesciolino settimino.

Volevo toccare terra, abiterò per sempre il mare.

Non sono più clandestina, migrante, profuga.

Sono solo Fatima, come tante altre ma, a dispetto del mio nome, meno fortunata

 

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