La meridiana

Voltando la pagina del giornale, lo sguardo di Raoul si fermò sulla pubblicità insolita di una compa­gnia aerea europea. La fotografia a colori occupava tutta la pagina: un muro antico, con feritoie medievali e, in primo piano, su un tratto intonacato, una meridiana dipinta, sco­lorita dal tempo.

Raoul voltò ancora pagina e riprese la lettura dell’articolo sull’inverno nucleare, ma, mentre gli occhi scorrevano sulle righe, si accorse di una piccola emozione rimasta indietro, che gli impediva di concentrarsi nella lettura. Tornò a guardare la fotografia. La raggiera della meridiana partiva da un globo luminoso a forma di sole. Al centro giallo del sole era dipinto un occhio, di un colore che forse era stato rosso, e dall’occhio uscivano frecce rosse a indicare i numeri romani delle ore. In alto, sopra l’orologio solare, c’era una scritta in caratteri gotici illeggibili. L’asta di ferro, a forma di freccia, proiettava la sua ombra obliqua sull’ora seconda di un pomeriggio di sole.

La fotografia in sé non gli ricordava nulla. Era l’età del muro e del dipinto che lo aveva turbato.

Guardò fuori dal finestrino del treno, alla nebbia mattutina che saliva dal fiume.

Alla fermata di Dobbs Ferry, lo scompartimento si riempì di executives infreddoliti, con le soprascarpe e la 24 ore imbiancate di neve. Dall’altra parte del fiume, anche le scogliere delle Palisades erano innevate. Il rosso mat­tone della roccia affiorava qua e là tra l’infarinatura bianca. I colori qui sono così vivi. Anche le montagne non mostrano gli anni. Chi avrebbe detto che quella terra selvaggia stava lì dall’inizio del mondo e non solo dal 1492… Forse era stata la mano pesante dell’uomo a dare all’Europa l’aria docile delle nature domate.

Raoul guardò gli aceri alti sfilare fuori dal finestrino. Dopo un anno di euforia adolescenziale, perché questa era l’aria che emanava la città, Raoul aveva notato che nessuno invecchiava a New York. Solo eterni trentenni attraversavano in fretta le Avenues. Ma i vecchi dove sono? si chiedeva passeggiando per i parchi sommersi tra i cristalli dei grattacieli. Il vento dall’oceano vibrava di salsedine e jazz sincopato. Avresti potuto ballare per strada, tanto l’aria era satura di ritmo.

I vecchi? Svaniti, tenuti nascosti di là dal fiume, fuori città, disseminati nei grandi ospedali geriatrici. I più fortunati, in Florida. Nessuno riuscirebbe a passare i sessanta nella City senza morire d’infarto, o ammalarsi di cancro, come dimostrava il tutto esaurito del reparto tumori negli ospedali della città.

I blocchi di ghiaccio sul fiume diradavano via via che il treno si appressava alla foce. La vegetazione alta si alternava a grandi spazi sterrati, adibiti a parcheggi. Poi i supermercati e i grandi magazzini di Yonkers, il galoppa­toio, le stazioni dei pullman, i baracconi fradici lungo il fiume. Stormi di gabbiani pattugliavano i moli sguarniti, si appollaiavano sugli scheletri arrugginiti degli attracchi. Qualcuno seguiva il treno in corsa verso Harlem, planando poi fra i canneti della riva. Nelle domeniche d’estate, una marea di bagnanti con le lenze da pesca invadeva i canneti inquinati dai rifiuti e la massicciata vicino ai binari.

Quell’abbandono ai bordi della scintillante metropoli aveva un’aura di ottuso delirio. In Europa si sarebbe gridato allo scempio, qualche potere locale avrebbe provveduto a rimuovere i rottami, su pressione delle aziende turistiche, a restaurare il restau­rabile. Anche un vecchio muro cadente avrebbe preservato i suoi sassi, le feritoie, l’intonaco dipinto.

Era questo che l’aveva turbato: il rispetto per l’opera umana che aveva tramandato quella meridiana fino a lui. Gli americani, eredi dei coloni e dei cacciatori di pelli, non provavano il rispetto degli europei per­ le cose vecchie.

Raoul provava nostalgia, adesso, per la prima volta. Gli oggetti del passato avevano il potere di assorbire il tempo. Non aveva mai apprezzato il tempo, se non in senso priva­tivo. La corsa, in tutto, all’impiego del minor tempo possi­bile. L’America gli rimandava la stessa immagine di sé, frenetica e acerba, e Raoul aveva per contrasto sco­perto la sua natura europea.

Gli americani erano ragazzacci presi nella loro smania in­dustriosa, incuranti dei giocattoli rotti, sempre pronti a dimenticarli per quelli più nuovi. Era proprio questo che l’aveva attratto. Lo spirito del butta-giù-e-ricostruisci-da-capo. Una cit­tà, un’industria, aveva il suo momento di boom, poi chiudeva i battenti e andava a ricominciare da un’altra parte. Lo spirito dei pionieri. I villaggi fantasma che si lasciavano dietro.

II treno della Metro-North scese all’improvviso nel tunnel buio sotto la 91esima, ed entrò nei labirinti sotterranei di Grand Central. Gli snodi ferroviari brulicavano di gente che si affrettava sulle scale mobili per riemergere in superficie. Era un fiume di cappotti neri vomitati dai tunnel di un formicaio.

Raoul pensò che New York non sarebbe mai diventata una ghost town, un paese abbandonato, con vento e vortici di polvere nelle strade deserte. Tanti giovani avventurosi arrivavano qui, a ondate, a rinnovare il mito della città che non dorme mai. Avrebbero presto scoperto di non esser temprati per affrontare la metropoli. Il ritornello “Se puoi farcela qui, puoi farcela dappertutto” svelava l’ardua impresa di vivere soli e senza mezzi a New York. A Raoul era mancato spesso il coraggio, ma non mollava. La propria curiosità per la City non si esauriva mai.

Sulla 42esima c’erano mucchi di neve sporca ai lati della strada e il traffico, ostacolato nel suo fluire, risuonava di clacson e di sirene, Voltandosi verso la Stazione Centrale da cui era uscito, guardò la statua fuligginosa di Mercurio e, dietro, il luccichio dei grattacieli MetLife e Hyatt Hotel. Attraversò di corsa l’incrocio con Madison Avenue ed entrò nella torre che ospitava il suo ufficio. Pigiato nell’ascensore, in salita verso il 35esimo piano, pensò che per l’intervallo di mezzogiorno avrebbe fatto una visita alla Public Library, un isolato più su.

All’ora del break salì le scalinate della Biblioteca coi leoni ricoper­ti di neve ed entrò nel salone di lettura delle riviste. I grandi tavoli di legno scuro, le lampade verdi, gli scaffali a muro carichi di volumi d’ogni età e provenienza davano al salone l’atmosfera sospesa di un limbo. Si sedet­te senza chiedere nulla e tirò fuori il suo giornale. Finì di leggere l’articolo, mentre il tempo scorreva fuori dalle alte finestre, sulla Quinta Avenue. I rumori del traffico giungevano ovattati, insieme al suono di una chitarra che si esibiva sul marcia­piede, nonostante la neve.

Fuori era un altro mondo, ma lì dentro, ah, lì dentro era casa sua. Non sentiva lo spasmo della nostalgia, della solitudine, o della fretta. In mezzo ai libri, il tempo e lo spazio si dilatavano. Avrebbe potuto essere nella piccola biblioteca del suo villaggio in Bretagna o in un vecchio monastero tibetano.

Uscendo, riuscì a sopportare meglio il caos della City. Alzò gli occhi e vide le torri della città svettare sopra le nuvole di pioggia che si addensavano. Altre persone erano ferme al semaforo, con gli ombrelli aperti. Raoul si fermò sul marciapiede affollato, col viso rivolto in alto, alla pioggia che precipitava a raggiera su di lui, acuendo la vertigine dell’altezza. Respirò a pieni polmoni e provò gioia mista a orgoglio, come se quelle torri fossero sue. Le conquistava ogni giorno, affrontando la città. Non sarebbe tornato alla vita provinciale che aveva lasciato. Voleva immergersi in quel mondo nuovo, assaggiare il suo spicchio di mela, anche se avvelenata. Qualcuno lo spinse passando. Via libera. Raoul abbassò gli occhi e attraversò la strada, confondendosi tra la calca di gente frettolosa che tornava al lavoro.

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