La giovane donna che mi vende il baccalà al mercato, ha il volto scolpito e tragico di certi maschi pasolininiani. Potrebbe essere anche bella, interessante di certo, se solo avesse portato l’apparecchio per i denti da bambina, e avesse avuto, da sempre, meno motivi di ansia e qualche opportunità di curare la sua anima. Ha lo sguardo fiero e i modi sbrigativi di chi ha sempre i minuti contati, ma, con me, quella maschera di affanno e disperazione si scioglie, da un po’ di tempo, in una sorta di dolcezza rassegnata e confidente nella mia comprensione, sulla quale non nutre incertezze né timori. Il primo incontro fu molto sgradevole. Le avevo chiesto di tenermi la spesa fino all’uscita da scuola, e lei mi aveva avvisata, senza alcun garbo, che non mi avrebbe aspettata un minuto oltre le 14, orario di chiusura del negozio. Mi aveva talmente allarmata col suo diktat che avevo percorso il pur breve tragitto a rapidissime falcate, col fiato in gola, e giurando a me stessa che mai più mi sarei sottoposta a una simile intimidazione. La trovai sulla soglia della pescheria alle 14 in punto, con gli occhi bassi e il pacchetto in mano, pronta alla consegna.
Non ero più entrata nel suo negozio, davanti al quale passavo ogni giorno andando a scuola, e non avevo più pensato a lei, quando un giorno mi si paro’ difronte col suo piglio risoluto e provocatorio :”Che è, nun venite cchiu’ addu me, nun ve so’ piaciuta? “ Le risposi alla mia maniera neutra, da glaciazione cosmica, che non avevo più avuto voglia di comprare baccalà, ma quella interrogazione così diretta e qualcosa di ferito nel suo sguardo mi disposero immediatamente a rimediare, quasi a giustificarmi per quell’abbandono. Infatti sono tornata. L’ho conosciuta e so di lei cose che me la rendono cara e ammirevole.
Ora, appena entro in pescheria, mi accoglie con un “Professoressa bella mia!” squillante e scandito di orgoglio, mentre lo sguardo fiero guizza in cerca di un pubblico per condividere la sua gioia, che è certa e ineludibile, come la fretta cui non può sfuggire.