Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo, Roberto Speranza, Miguel Gotor & C. si sono appellati all’”eleganza”, al “galateo istituzionale”; hanno detto di voler evitare “sgrammaticature”, cioè errori marchiani. Hanno motivato così la propria decisione di non firmare la richiesta di referendum confermativo sulla riforma appena giunta al termine del rigorosissimo iter parlamentare previsto in Costituzione (tre volte discussa e approvata sia dalla Camera che dal Senato. Totale: sei letture).
Argomento: la richiesta del referendum prevista dall’art. 138 della stessa Costituzione quando le modifiche non siano approvate da almeno i due terzi in ambedue le Camere sarebbe un diritto delle minoranze e non risulterebbe “elegante” che se ne serva chi ha ottenuto (pur con una maggioranza inferiore ai due terzi) l’approvazione di quelle modifiche.
E perché? La Costituzione non fornisce alcun indizio in proposito. La facoltà costituzionale consente sì, ai parlamentari delle minoranze, di promuovere il referendum per dimostrare che le modifiche non sono accettate dalla maggioranza degli elettori; ma consente anche, ai parlamentari della maggioranza, di farlo per dimostrare che quelle stesse modifiche hanno il sostegno dei più non solo nel Parlamento ma anche fra i cittadini.
E poi, i fedelissimi seguaci del “galateo istituzionale”, che si tengono lontani dalle “sgrammaticature” come spiegano il fatto che il cruciale art. 138 riconosce la possibilità di chiedere lo stesso tipo di referendum a 500.000 elettori e a 5 consigli regionali? Non si specifica affatto che i 5 consigli debbano essere governati da maggioranze riferibili alle posizioni risultate soccombenti in Parlamento, né si chiede ai cittadini firmatari di dichiarare se il referendum vogliono promuoverlo con l’obiettivo che prevalga il SI o il NO.
I referendum costituzionali si distinguono dagli altri in quanto indetti non per “abrogare” ma per “confermare” le norme approvate dal Parlamento; cosicché possono promuoverli non solo quelli che vogliono cancellarle ma anche quelli che vogliono rafforzarle e sancirle con il voto popolare.
Prima di quella prevista nel prossimo autunno le consultazioni di questo tipo sono state solo due: il 7 ottobre 2001 e il 25/26 giugno 2006. Quella del 2001 è, dunque, la prima; riguardava la Legge Costituzionale 3/2001 (riforma del Titolo V – art. 114-132) approvata definitivamente dal Senato l’8 marzo 2001, e pubblicata nella Gazzetta ufficiale il 12 marzo.
Il giorno dopo – 13 marzo – presso la competente Corte di Cassazione vengono depositate due (sottolineo, due) richieste di referendum per iniziativa dei parlamentari (l’art. 138 richiede almeno il 20% dell’assemblea). Il voto conclusivo è stato del Senato, il compito spetta ai senatori. La Loggia, Mantica e Castelli, rispettivamente a nome dei gruppi FI, AN e Lega contrari alle modifiche, depositano 102 firme; 77, invece, sono le firme depositate per identica richiesta da Angius, Elia (sì, il presidente emerito della Corte costituzionale), Pieroni e Napoli per i gruppi Democratici di sinistra, Popolari, Verdi, Udeur che avevano approvato la riforma.
Nessuna voce si levò per accusare questi ultimi di “maleducazione istituzionale”. Ci fosse stato qualche dubbio, lo avrebbe comunque dissolto l’ Ufficio centrale per il referendum il quale, con ordinanza del 22 marzo – dieci giorni dopo – dichiarò conformi alle norme dell’art. 138 della Costituzione e della legge 352/1970 le due (sottolineo, due) richieste di referendum depositate.
Per favore, dite di aver sbagliato! O, almeno, dichiarate sinceramente che non firmate perché siete contro Renzi: sempre e comunque. Così, non è elegante.