C’è la nebbia, fuori. Una colata di umidiccio opaco che si riversa sulle cose attorno. Non le ricopre, non le accarezza: le ottunde.
Ha il suo fascino la prima nebbia di stagione, qua da noi. Arriva come una padrona che torna a casa dopo le vacanze, ha le chiavi di tutte le porte, perché la Pianura Padana è roba sua. Penetra dentro i vicoli, le stradine, le porte, fin dentro le giacche, la pelle, le ossa. È dentro e fuori, non la puoi evitare o schivarla, come la malinconia.
Serve a farti meditare, la nebbia, perché quando non vedi più le cose con il loro contorno abituale sei costretta a pensarci di più. Cerchi di ricordare dove cominciano e dove finiscono, che forma hanno quando la nebbia non c’è.
Anche tu pensi e ridefinisci, cercandoti nel lattiginoso bianco che riesci a fatica a respirare, senti che non sei più quella di prima, estiva e netta, ma una cosa che si ingolferà e nasconderà nei cappotti, nelle sciarpe di lana, seppellirà i capelli nei berretti, filtrerà il tatto attraverso i guanti, farà pensieri che prima di arrivare allo scoperto dovranno attraversare strati di stoffe. Le parole che usciranno dalla bocca non saranno più parole e basta, come d’estate, ma sbuffi di fumo, vapore, nebbia anch’esse. Perderanno i loro contorni nell’aria autunnale, acquisiranno una sostanza che non è loro prima di arrivare alle orecchie altrui. Dovranno passare altri strati prima di essere ascoltate davvero, perché anche gli altri saranno sepolti in sudari di cappotti, sciarpe, guanti e berretti.
Il sole è matematica, la nebbia è filosofia. Ciò che era così netto d’estate, diventerà arabesco, per infiltrarsi come la nebbia fra le maglie dei golf, passare sotto le porte sprangate per paura del freddo e dell’umido.
Le parole, per arrivare d’inverno, devono imparare le astuzie della nebbia.